(estratto dalla “Proposta di documento politico-programmatico” del 21 gennaio 2021)
Il femminismo è un movimento eterogeneo sviluppatosi con caratteristiche peculiari in ogni paese a seconda della fase storica, con al suo interno diverse posizioni e approcci teorici, tanto che oggi la maggior parte delle militanti femministe parla di ‘femminismi’. Proprio per questo è necessario per una Organizzazione comunista sgombrare il campo da deviazioni teoriche e politiche sedimentate nel tempo, frutto dell’egemonia strutturale e sovrastrutturale della classe dominante borghese.
Tutte le società, nate dopo la fine della società comunista primitiva, della nascita della proprietà privata, delle classi e della formazione della famiglia monogamica, sono state società patriarcali; la condizione di sfruttamento e oppressione della donna è una caratteristica costante fin dall’inizio del processo di divisione sociale del lavoro. Infatti, l’oppressione della donna nella famiglia patriarcale deriva da un cambiamento esterno a essa, nella misura in cui il lavoro dell’uomo iniziò a produrre ricchezza e divenne produzione e scambio sociale, mentre, quello della donna, venendo escluso dalla partecipazione a queste funzioni sociali, rimase un servizio privato e familiare, finalizzato alla riproduzione della forza-lavoro. La condizione della donna come sesso oppresso si è mantenuta fino a oggi, nella società e nella famiglia, attraverso diverse forme della società classista, della proprietà privata e dello sfruttamento del lavoro.
La borghesia ha perpetuato la condizione di oppressione della donna come schiava domestica; la famiglia è da essa concepita come un elemento della riproduzione e della società capitalista. Ma è stato lo stesso modo di produzione capitalista a generare dialetticamente le sue contraddizioni e, con esse, la ‘questione femminile’.
Le rivoluzioni industriali rappresentarono storicamente un momento di svolta; con la fine del sistema produttivo a domicilio e la concentrazione di capitale nella fabbrica: nelle grandi manifatture il ‘mercato di beni’ necessitava di un ‘mercato del lavoro’ con offerta abbondante che ne mantenesse basso il costo; così iniziarono a lavorare, accanto agli uomini e in concorrenza, anche le donne alle quali il lavoro scarsamente retribuito della fabbrica si aggiungeva al consueto lavoro, non retribuito, della riproduzione della forza lavoro e della cura di casa e famiglia.
Durante il 1° conflitto mondiale, in assenza di sufficiente manodopera maschile utilizzata come carne da cannone nella guerra imperialista, le donne entrarono massicciamente in fabbrica rispondendo alle esigenze belliche della borghesia.
Le donne delle famiglie borghesi non hanno dovuto rapportarsi con questi nuovi scenari perché mantenute da padri e mariti disponendo di una servitù sottoposta al loro comando nella cura di figli e casa. Per queste ‘regine della casa’ sarebbe stato deprecabile cercare un lavoro, degradandosi al livello delle ‘donne del popolo’, ma anche un’attività intellettuale era resa difficile dal generale scetticismo riguardo le effettive capacità femminili e a causa di una istruzione incompleta per il divieto di accesso alle scuole superiori; subivano quindi una dipendenza economica e la loro condizione di subordinazione e ininfluenza era sancita dall’esclusione al diritto di voto.
Se le donne, indipendentemente dalla connotazione sociale, vivevano una situazione di discriminazione e oppressione, l’appartenenza a classi sociali diverse produceva problemi ed esigenze differenti e distinti programmi di rivendicazioni. Le donne operaie in fabbrica, si sottrassero alla solitudine delle mura domestiche e fecero confluire la protesta all’interno del movimento operaio; le donne borghesi, non inserite nel mondo del lavoro di cui volevano far parte, produssero un proprio movimento d’opinione. Nel corso dell’800 nacquero due distinte correnti: il femminismo liberale, che ha come principale obiettivo la conquista dei diritti civili, e il femminismo socialista con l’obiettivo immediato della lotta economica e sindacale nel contesto della lotta politica rivoluzionaria, cioè della lotta per l’instaurazione di una società socialista come condizione necessaria per realizzare una reale liberazione della donna.
Fra fine ’800 e inizio ’900, la Kollontaj, rivoluzionaria russa e prima donna nella storia ad aver ricoperto l’incarico di ministro, affermava “ … la liberazione della donna può compiersi solo tramite una trasformazione radicale della vita quotidiana che potrà essere modificata unicamente da un rinnovamento profondo dei processi di produzione, edificato sulle basi dell’economia comunista”. A inizio ’900, Clara Zetkin, tra le fondatrici del Partito comunista tedesco, sostenne la formazione di un movimento femminile di classe. E Lenin, dopo la Rivoluzione del 1917, affermava “ … nessun partito democratico del mondo e nessuna delle repubbliche borghesi più progredite ha fatto in decine d’anni nemmeno la centesima parte di quello che abbiamo fatto anche solo nel primo anno del nostro potere. Non abbiamo letteralmente lasciato pietra su pietra di tutte le abiette leggi sulla menomazione dei diritti della donna, sulle restrizioni al divorzio … La donna, nonostante tutte le leggi liberatrici, è rimasta schiava della casa … incatenata in un lavoro bestialmente improduttivo. La vera emancipazione della donna, il vero comunismo incomincerà là e allora, dove e quando incomincerà la trasformazione di questa economia nella grande economia socialista”.
Chiaro il rapporto inscindibile tra questione femminile e lotta per la nuova società. Nella 2° Guerra mondiale la maturazione sociale della donna si concretizzava nella partecipazione femminile ai movimenti della Resistenza, nell’organizzazione della rete dei partigiani e nelle azioni di guerriglia, nelle lotte di fabbrica e nei luoghi di lavoro. La lotta di quelle donne è stata indispensabile per l’emancipazione di un’intera classe per la conquista del potere. La lotta delle donne, in un contesto di dopoguerra con una lotta popolare forte, ha contribuito all’emancipazione non solo femminile ma dell’intero proletariato: suffragio universale, progressiva scomparsa della famiglia patriarcale, elevamento del livello culturale, parità di condizioni di accesso al lavoro, Statuto dei Lavoratori e previdenza, nuovo diritto di famiglia, divorzio, aborto, sono alcuni esempi in cui le lotte femminili hanno contribuito in modo decisivo al miglioramento delle condizioni della classe sociale.
È stato un miglioramento transitorio, ottenuto con grandi lotte in una fase di rapporti di forza favorevoli alla classe e alle donne proletarie; transitorio laddove revisionismo e riformismo hanno prevalso con posizioni borghesi rinunciando a svolgere la funzione storica di cambiamento radicale della società.
Le organizzazioni riformiste del movimento operaio sono passate da un atteggiamento, in alcuni casi, apertamente ostile alla questione femminile (con dirigenti socialisti contrari al diritto di voto alle donne) o a un’impostazione del problema esclusivamente economica (salario, orari di lavoro, pari condizioni di lavoro) per finire, in assenza di una analisi di classe indipendente, a capitolare verso le concezioni del femminismo borghese che, ottenuti i diritti civili, degradava inevitabilmente, data la sua connotazione borghese, su teorie anti-organizzative (considerando l’organizzazione come “autoritaria perché maschile” e quindi sottintendendo la critica all’organizzazione politica). Questo femminismo borghese si è concentrato sulla questione di genere che, come ogni specismo (dal razzismo all’omofobia), non è che un inevitabile sviluppo della società classista che genera le divisioni e le discriminazioni come strumento fuorviante per le masse per garantirsi l’egemonia. In sostanza la lotta delle donne contro gli uomini è funzionale a deviare l’attenzione dalla necessaria lotta delle donne e degli uomini del proletariato contro le donne e gli uomini della borghesia. Quindi, queste teorie e politiche, dietro l’apparente radicalità, hanno rappresentato in realtà una visione reazionaria della questione femminile, sganciandola dal problema dei rapporti di forza fra classi, della presa del potere, rifiutando l’organizzazione delle proprie forze.
L’idea che le donne dovessero avere movimenti separati e autonomi si è dimostrata fallimentare: il femminismo è entrato in un vicolo cieco definitivamente egemonizzato dagli interessi della classe dominante; le organizzazioni riformiste del movimento operaio, creando un solco fra le rivendicazioni delle donne e del movimento operaio, hanno contribuito all’arretramento di quest’ultimo. La condizione della donna è inevitabilmente arretrata perché lo è globalmente la condizione della classe proletaria.
È la storia del movimento delle donne che dimostra che solo il marxismo, fin dal Manifesto del Partito Comunista del 1848, della I° Internazionale del 1864 e con L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato del 1884, ha fornito, per la prima volta, una base materiale scientifica alla causa dell’emancipazione femminile. Ha spiegato le origini della sua oppressione nella nascita della proprietà privata e delle classi, condizione perpetuata con l’affermarsi del sistema di produzione capitalista che determina una doppia giornata lavorativa e una duplice oppressione della donna; ha spiegato il ruolo della famiglia e del patriarcato nell’accumulazione capitalistica; ha spiegato come l’abolizione della proprietà privata fornisca le basi materiali per trasferire all’intera società le responsabilità sociali che ricadono sulla donna.
Il modello patriarcale è funzionale al modello capitalista perché carica sulla donna il lavoro domestico e di cura, nega la personalità della donna e consolida assetti proprietari più funzionali e prolifici per la classe dominante. Gli aspetti culturali e sovrastrutturali, ad esempio le religioni monoteistiche, hanno contribuito a legittimare l’egemonia economica capitalista.
Non è un caso che oggi, in una fase di acuta crisi del capitalismo, tutte le forze reazionarie intensifichino l’offensiva contro le conquiste sociali delle donne. Le chiese monoteistiche, con il Vaticano in testa, rispolverano abilmente la concezione patriarcale della famiglia che mal cela una concezione gerarchica e interclassista della società; tale concezione si combina con le altre ideologie interclassiste e gerarchiche, liberali o socialdemocratiche, con chi ancora oggi incarna palesemente il concetto di società ordinata gerarchicamente.
Torna in auge l’idea cristiana e fascista di una donna ‘protetta’ dall’uomo, ‘angelo di un focolare’ per il quale deve produrre una progenie numerosa, una donna che non deve lavorare fuori casa ma preoccuparsi della cura della famiglia, che in questo suo essere ‘angelo’ non deve invecchiare ma essere piacente e meritevole di attenzioni da parte del ‘suo’ uomo. In sostanza, una donna sottomessa e dipendente, che sappia accettare il ruolo sociale cui è destinata dalla società decisa dal modello egemone.
Questo modello, in una situazione di drammatico disagio economico e sociale, di arretratezza culturale ed emarginazione, sembra permeare in maniera preoccupante le giovani donne del sottoproletariato che diventano così facili prede della ‘sottocultura del branco’ neofascista, di organizzazioni internazionali pro-life e pro-family che alzano la voce pretendendo l’abolizione delle leggi su aborto e divorzio; movimenti manovrati a livello d’opinione pubblica da media padronali e sponsorizzati trasversalmente da oligarchi conservatori statunitensi e russi, che trovano protezione politica anche nelle lobby delle ‘democratiche e progressiste’ istituzioni europee. Un capitalismo che, avendo esaurito la sua fase propulsiva nella storia, torna a usare l’egemonia culturale delle chiese e il manganello neofascista nelle piazze per sfruttare le donne e, con esse, il proletariato.
Nel capitalismo lo sfruttamento della donna è essenziale: se la donna non lavora ma ricopre mansioni di cura, svolge un compito sociale non retribuito, contribuendo a un risparmio oggettivo per lo Stato; se la donna lavora, viene comunque retribuita meno dell’uomo determinando la diminuzione del monte salari complessivo e l’aumento del grado di sfruttamento del proletariato.
L’attualità dimostra la corretta analisi marxista: le donne non sono emancipate ma sempre più oppresse. Le socialdemocrazie del dopoguerra hanno dovuto concedere, per la grande pressione esercitata dall’emergere del proletariato, protagonista a livello mondiale, una teorica libertà alle donne, con la possibilità d’accesso al lavoro, con l’uguaglianza dei diritti politici e della fruizione delle libertà individuali; hanno persino dovuto accettare di riconoscere il diritto all’aborto e al divorzio. Ma “la borghesia dà e la borghesia toglie”, a seconda dell’andamento dei rapporti di forza fra le classi e dei profitti.
Le liberaldemocrazie che dimostrano palesemente l’asservimento alle politiche dello Stato borghese e alle esigenze economiche della classe egemone per sostenere la necessità della borghesia, in una fase di saggio di profitto discendente, tornano ad attaccare le donne e a incrementarne lo sfruttamento.
Il processo di emancipazione compiuto svela la sua vacuità quando si analizzino i dati: nella crisi economica le donne sono le prime a essere espulse dal processo produttivo; i tassi di disoccupazione femminile sono del 50%; quando lavorano, le donne vengono retribuite mediamente il 17% in meno degli uomini a parità di mansione e quindi, nonostante le leggi sulla parità salariale, non si rileva una diminuzione significativa del differenziale salariale; il divario retributivo espone le donne a un maggior rischio di povertà non solo nell’arco della ‘vita produttiva’ ma anche in vecchiaia quando il 21% di esse rischia di non poter essere autonoma, contro il 16% degli uomini. Nonostante la formale parità giuridica e la più alta qualificazione (nell’UE le donne sono oltre il 60% dei laureati e l’83% delle donne oggi raggiunge almeno un diploma di istruzione secondaria superiore, contro il 77% degli uomini) le lavoratrici sono spesso segregate in determinati settori e concentrate nei livelli inferiori; persino la libertà sessuale, bandiera fondamentale di un tipo di femminismo, ha finito per essere usata contro le donne, generando la mercificazione del corpo e la giustificazione a una violenza frutto dei rapporti di oppressione fra sesso dominante e sesso dominato.
La donna, negli attuali rapporti di produzione, non solo contribuisce alla produzione e alla riproduzione della forza-lavoro ma, sempre più espulsa dal processo produttivo nelle imprese, con il lavoro domestico e cura non retribuito, supplisce allo smantellamento del welfare: le donne, in media, praticano il lavoro domestico settimanale per 18 ore in più rispetto agli uomini e il 42% delle donne lavoratrici sono impegnate nelle attività di cura, contro il 34% dei lavoratori. In Italia, un quarto delle donne abbandona il lavoro dopo la maternità e il 7% dei padri utilizza i congedi parentali a fronte del 45% delle madri. Sul posto di lavoro, la donna, spesso segregata in settori caratterizzati da bassa composizione organica di capitale (pulizie, servizi alla persona, agricoltura, tessile-abbigliamento, commercio), con minori tutele e inquadrata nei livelli bassi delle categorie professionali, produce come l’uomo ma il prezzo della sua forza-lavoro è più basso. Il che torna utile ai capitalisti per ampliare il campo dello sfruttamento e abbassare la somma di salario che pagano. La riduzione dei salari delle donne è un mezzo di compressione e ricatto per abbassare il prezzo complessivo della forza lavoro.
Oggi non si può non avere attenzione al fenomeno delle donne migranti (in Italia sono oltre la metà della popolazione straniera regolare), vittime della nuova divisione internazionale del lavoro funzionale al capitalismo finanziario globale, spesso sfruttate e brutalizzate nei paesi d’origine e nelle traversate verso il ‘sogno occidentale’, costrette a scontrarsi con un ‘sogno infranto’ quando l’occidente capitalista azzera le loro competenze, i loro titoli di studio, le costringe a un mercato del lavoro dequalificato, di bassi salari e privo di tutele.
Lavoratrici migranti che, nella maggior parte dei casi, destinano la metà del loro salario alle famiglie nei paesi di origine e sono disposte a ogni sacrificio, anche del corpo, dell’utero, per emancipare se stesse e i propri figli dalla povertà, frutto di secolare imperialismo. Povertà globale che colpisce soprattutto le donne che di 1,3 miliardi di poveri assoluti sono il 70%.
Il femminismo borghese, malgrado la generosità di alcune sue lotte, ha la sua matrice di classe ed è chiaro che poco ha in comune con l’emancipazione della donna proletaria. Per le donne della borghesia il problema si pone essenzialmente su un piano giuridico e di accesso a proprietà e profitti, a incarichi nelle istituzioni della classe dominante. La loro emancipazione assume la forma di ‘libera concorrenza’ con gli uomini appartenenti alla stessa classe.
Le femministe borghesi non attaccano mai le fondamenta dell’attuale società, non mettono in discussione lo sfruttamento del lavoro salariato. Quando entrano nella élite della vita economica e politica, nelle organizzazioni del potere, si trasformano da ‘sostenitrici dei diritti delle donne’ in fautrici entusiastiche dei privilegi della classe dominante. La loro ‘emancipazione’, che si sostanzia nel raggiungimento di posizioni di vertice nelle istituzioni del potere, come nell’apertura a loro delle forze armate e delle polizie, viene pagata dalla crescente subordinazione e repressione di milioni di donne, di lavoratori e popoli.
Per questo, la lotta di genere, se non si coniuga con la lotta di classe, è lotta dei borghesi, di donne e uomini contro proletarie e proletari; lotta che produce campagne demagogiche che annebbiano la coscienza della differenza di classe (basti pensare all’interpretazione della violenza maschile contro le donne come violenza di genere e non propria di una società divisa in classi); che divide proletarie e proletari ponendoli in concorrenza nel sistema produttivo; che genera illusorie proposte di liberazione attraverso autogestione-formazione-determinazione delle donne, scadendo nell’utopismo anarchico che impedisce alla classe proletaria di avere coscienza di sé e costruire con la rivoluzione uno Stato socialista; che propone il salario minimo europeo e il reddito di autodeterminazione per le donne determinando la costante riduzione del salario reale, favorendo la creazione di una precarietà che genera più violenza economica e sociale nei confronti delle proletarie. In sostanza il femminismo borghese è al servizio degli interessi borghesi.
Associazioni, sindacati e partiti socialdemocratici e liberaldemocratici, che non mettono in discussione il sistema capitalista, mirano a controllare il movimento di emancipazione delle donne per arretrarne il livello di coscienza, di organizzazione e di lotta. Da decenni, la maggioranza delle organizzazioni e dei movimenti femministi, riformisti e socialdemocratici dirigono l’attività nei centri di decisione politica con l’appoggio dei loro governi e degli Stati, per far passare riforme che non intaccano gli interessi dell’imperialismo.
Comprendere la volontà dell’imperialismo di controllare e dirigere il movimento delle donne, non significa non combattere per l’uguaglianza dei diritti o per battaglie di resistenza come la difesa della 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza a difesa dei consultori o di leggi che tutelano le lavoratrici; queste rivendicazioni, che costituiscono l’obiettivo ultimo del movimento femminile borghese sono, nel miglior dei casi, obiettivi minimi del movimento femminile proletario. Significa rafforzare il lavoro affinché il movimento si sviluppi con un orientamento consapevole; i cambiamenti rivoluzionari nei rapporti sociali possono eliminare la subalternità della donna e la partecipazione cosciente delle masse femminili, possono produrre cambiamenti apportandovi forza, qualità e valori.
Le donne del proletariato e delle masse popolari non possono condurre allo stesso modo e con gli stessi obiettivi delle donne borghesi la lotta per l’emancipazione economica e sociale, aspetto fondamentale della lotta di liberazione dalle forme di alienazione, sfruttamento e schiavitù. Debbono condurla necessariamente con gli uomini della loro classe contro i capitalisti, sostenendo rivendicazioni economiche, politiche, sociali, culturali, come strumenti di lotta e condurre la battaglia in prima persona ad armi pari.
I comunisti, i lavoratori avanzati e coscienti, hanno la responsabilità di assumere una posizione chiara contro l’ineguaglianza delle donne, la violenza maschilista e le pratiche discriminatorie che si verificano anche dentro le famiglie proletarie, poiché la lotta per l’abolizione dell’oppressione della donna, per l’uguaglianza dei diritti nella vita sociale e privata, è parte integrante della lotta per l’abolizione di ogni forma di sfruttamento nei rapporti umani, per l’alternativa ai rapporti sociali borghesi. La vittoria della rivoluzione socialista e l’edificazione della nuova società, sono inconcepibili senza la partecipazione cosciente delle lavoratrici, protagoniste del proprio futuro. Per questo donne e uomini lottano assieme e si impegnano nella costruzione dell’Organizzazione che ricostruirà il Partito, strumento per dirigere la lotta per sovvertire rapporti di classe e costruire la società socialista in cui le donne storicamente hanno posto le basi per raggiungere la liberazione.