Lottiamo per la pace, stop alla guerra ! L’Ucraina è la tragica vittima di una guerra brutale e reazionaria in cui la Russia imperialista e i suoi rivali imperialisti occidentali desiderano sottomettere il paese e sfruttarne le vaste risorse. Centinaia di migliaia di soldati e civili ucraini e russi hanno già perso la vita sui campi di battaglia e nelle città. I ministri degli esteri della NATO si incontreranno a Oslo il 31 maggio per discutere come prolungare ulteriormente questa guerra, il massacro e la devastazione. Questo è l’obiettivo primario degli Stati Uniti e del Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg. Altrimenti, potrebbero accettare le offerte di diversi paesi per facilitare i negoziati di pace. Gli Stati Uniti e la NATO invece rifiutano apertamente ciò, a nome dell’Ucraina. Inoltre insistono sul fatto che la Russia deve essere sconfitta e che interverranno nella guerra con più armamenti e logistica «finché sarà necessario». Si tratta di una guerra prolungata condotta nell’interesse delle classi dominanti e dei loro monopoli, che può intensificarsi con la minaccia di bombe nucleari tattiche, che espande i suoi fronti dal Baltico al Mar Nero. Gli enormi costi economici e umani sono gettati sulle spalle della classe operaia e dei popoli. La pretesa degli imperialisti di difendere l’Ucraina è falsa tanto quanto lo sono i loro proclami sulla difesa della libertà, della sovranità e dei «valori liberali». I popoli dell’ex Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan e della Libia conoscono bene questi «valori». La NATO è il problema, non la soluzione. Non è mai stata un’alleanza per la difesa dei paesi europei. È un’alleanza guerrafondaia istituita per salvaguardare l’egemonia degli Stati Uniti in Europa e per sopprimere qualsiasi movimento operaio che possa minacciare la classe dominante. La propaganda di guerra da entrambe le parti è assordante. Sebbene la forza militare convenzionale della NATO superi di gran lunga la Russia, la guerra è utilizzata come pretesto per un’estrema militarizzazione e riarmo dell’Europa. I bilanci della difesa vengono raddoppiati e persino triplicati. Fingendo che le loro risorse militari siano scarse, gli stessi paesi NATO stanno inviando carri armati, missili e per ultimo aerei da combattimento in Ucraina con le proprie «risorse limitate». Mentre il controllo della polizia e la politica autoritaria sono in aumento in tutti i paesi europei, si attua una continua propaganda per preparare le giovani generazioni a diventare carne da macello. La borghesia europea permette agli Stati Uniti di utilizzare i suoi territori per attività militari e persino per le basi nucleari. In vista del vertice del Consiglio Nord Atlantico, il governo norvegese ha permesso alla più grande portaerei del mondo USS Gerald R. Ford di ancorare fuori dalla città di Oslo. Allo stesso modo, la Bielorussia sta permettendo alla Russia di schierare missili nucleari sul suo territorio.Inoltre, l’Unione Europea sta ridefinendo le sue ambizioni e la sua strategia imperialiste. L’unione militare viene istituita per proteggere gli interessi degli stati e dei monopoli europei imperialisti, per partecipare alla lotta per la ri-divisione del mondo. In un mix di cooperazione e rivalità, gli imperialisti tedesco e francese vogliono trarre vantaggio da questa situazione e dominare l’UE e gli stati capitalisti minori. Soprattutto l’imperialismo tedesco è attivo per realizzare i suoi vecchi piani di essere la potenza leader in Europa. Non serve l’immaginazione per capire chi sta pagando il prezzo della guerra e dell’escalation della militarizzazione. I soldati ucraini e russi stanno pagando con la vita al fronte, mentre i lavoratori altrove in Europa sperimentano un’inflazione alle stelle, alti tassi di interesse, salario reale ridotto, limitazioni dei diritti democratici. Le politiche di austerità sono imposte in tutta Europa per sostenere l’ingente spesa dei bilanci della difesa. I lavoratori del nostro continente non hanno niente da guadagnare e tutto da perdere dalla antipopolare e pericolosa politica di guerra. Il nostro principale nemico è la borghesia nei nostri paesi. La lotta per la pace, contro l’invio di armi e il crescente coinvolgimento dei nostri paesi in questa guerra ingiusta, contro tutti i guerrafondai è un compito centrale nella situazione attuale. Questa lotta deve essere collegata alla lotta per l’aumento dei nostri salari, per la difesa e il miglioramento delle condizioni di lavoro, per pensioni pubbliche e dignitose, sistemi sanitari, istruzione, così come alla lotta contro la reazione e il fascismo in ogni paese. Un cessate il fuoco immediato e negoziati sono la soluzione a breve termine in Ucraina. Ma solo la solidarietà di classe internazionale e la pressione dei popoli e dei lavoratori d’Europa possono garantire una pace giusta nel lungo periodo. La questione della pace non può mai essere lasciata nelle mani dei governi imperialisti! Stop alla guerra ora! Maggio 2023 Dichiarazione della riunione europea della Conferenza Internazionale di Partiti e Organizzazioni Marxisti-Leninisti (CIPOML)
Dopo aver occupato la carica di Presidente del più grande Paese dell’America Latina già nel 2003 e nel 2010, Luiz Inàcio Lula da Silva sarà per la terza volta alla guida del Brasile a partire dal 1° gennaio 2023, data fissata per l’insediamento ufficiale del nuovo Presidente. Lula è risultato il più votato al secondo turno delle elezioni presidenziali tenutosi il 30 ottobre scorso. Un ballottaggio al “cardiopalma” con il candidato fascista – nonché Presidente uscente ed ex ufficiale dell’esercito – Jair Bolsonaro, che si è risolto a favore dell’esponente di sinistra – dopoché l’ex militare era rimasto a lungo in testa ai conteggi- solo con l’arrivo dei voti provenienti dalle zone povere del Nord e del Nord-Est dell’immenso territorio brasiliano. I dati definitivi diffusi dal Tribunale Supremo Elettorale hanno assegnato al 77enne leader del Partito dei Lavoratori (PT) il 50,9% dei voti contro il 49,1% del suo avversario del Partito Social-Liberale. Mai, dalla fine della dittatura, una elezione presidenziale si era risolta con un margine di voti così risicato. E malgrado l’importanza della posta in gioco l’astensione si è attestata al 20,55%. Ricordiamo che al primo turno, tenutosi il 2 ottobre, Lula aveva raggiunto il 48,43%, Bolsonaro il 43,2%. Quanto rimaneva era stato diviso tra gli altri candidati che avevano deciso comunque di presentarsi, nonostante che l’esito di questa competizione elettorale fosse ampiamente prevedibile. Anzi i sondaggi pronosticavano addirittura una vittoria di Lula già al primo turno; laddove l’essere stato costretto al ballottaggio non può non costituire motivo di riflessione per l’ex segretario del sindacato dei metalmeccanici della regione di San Paolo. E ciò, a maggior ragione, se si considera che le elezioni presidenziali si sono svolte congiuntamente alle elezioni per il rinnovo di 12 governatorati dei 27 stati che compongono lo stato federale brasiliano. Di questi solo 11 sono ora nelle mani del PT (4) o di forze alleate (7), mentre ben 14 sono controllati dai bolsonaristi. Gli ultimi 2 sono appannaggio di governatori “neutrali” appartenenti al PSdB; un partito moderato, con il quale Lula ha dovuto avviare in fase pre-elettorale un tavolo di trattative, tramite la mediazione di Geraldo Alckim, numero due di quel partito ed ex membro dell’Opus Dei.
-) I reali rapporti di forza tra gli opposti schieramenti
Le trattative con il PSdB sono state probabilmente ritenute necessarie da Lula nella consapevolezza della complessa situazione politica in cui si sta dibattendo da diversi anni il PT e, con esso, l’intera sinistra brasiliana. Dopo l’arresto per corruzione ed altri reati (accuse da cui è stato successivamente prosciolto) e la carcerazione di Lula, avvenuta nel 2018 nell’ambito dell’Operazione Lava Jato – una sorta di “Mani Pulite” in salsa verde-oro, che si sospetta possa essere stata orchestrata dagli USA – tramite la quale la magistratura brasiliana giunse a privare dei diritti politici il leader del PT impedendogli di presentarsi alle presidenziali di quello stesso anno; con la destituzione della presidente e compagna di partito Dilma Rousseff, a seguito di una sorta di golpe istituzionale ordito dal suo vice presidente Michel Temer (del Movimento Democratico Brasiliano); in conseguenza degli episodi di corruzione che hanno coinvolto dirigenti nazionali e locali del PT – motivo, anche questo, alla base della vittoria elettorale della destra nelle elezioni del 2018 – le fila delle forze progressiste brasiliane si sono pericolosamente allentate e solo il ritorno sulla scena politica di Lula nel novembre 2019, dopo la sua scarcerazione, ha consentito di recuperare, almeno in parte, adesioni e fiducia. Ma le forze raccolte attorno alla “resurrezione” di Lula potevano rivelarsi insufficienti nell’affrontare questo nuovo confronto elettorale. Da qui la necessità di aprire un tavolo negoziale con forze politiche moderate. Una scelta che pare aver sortito però anche effetti non particolarmente positivi. Innanzitutto ha ridato fiato alle accuse bolsonariane di trasformismo, di legami di corruttela e di scambio di favori tra forze politiche che dovrebbero risultare assai poco inquadrabili in un medesimo progetto di governo per il Brasile. La crescita di consensi registrata nel voto di ballottaggio da Bolsonaro potrebbe in parte anche dipendere da questa scelta fatta dal PT. Inoltre è forte il timore in molti militanti della sinistra che, una volta raggiunti certi equilibri in sede politico-istituzionale, si possa ripetere, nel momento in cui si decidesse di dare attuazione alle parti più avanzate del programma elettorale di Lula, lo stesso “tradimento” perpetrato dalle forze moderate che appoggiavano la Rousseff. Ed il ruolo giocato nelle già ricordate trattative con il PSdB dalla figura di Alckim – considerato il Macri brasiliano – non concorre certo a placare queste ansie. D’altronde per i bolsonaristi la possibilità di ricorrere nelle settimane a venire -insistendo nella denuncia di presunti brogli elettorali- all’arma della messa in stato d’accusa nei confronti del nuovo presidente potrebbe rivelarsi una forte tentazione. Ad oggi i numeri nel Parlamento brasiliano sono favorevoli alla destra: con gli alleati del Partito Liberal (destra tradizionale), del Partito Progressista, dei Repubblicani, il blocco di destra filo-bolsonarista dispone del 37-38% dei deputati e del 31% dei senatori. Di contro lo schieramento di sinistra (il PT di Lula, il Partito Comunista del Brasile, il Partito Verde) può contare sul 28% alla Camera ed il 20% al Senato. Il resto dei rappresentanti del popolo brasiliano nei due rami del Parlamento sono eletti in varie liste moderate, socialdemocratiche ed altre ancora e potrebbero offrirsi come massa di manovra per future azioni destabilizzanti. Dunque Lula ha sì vinto le elezioni presidenziali ma la base politica ed istituzionale (solo il 50% della popolazione dalla sua parte, controllo dei governatorati, maggioranza parlamentare) su cui ha fondato questa vittoria appare complessivamente assai fragile.
-) Le possibili mosse di Bolsonaro
Ma se l’eventualità di un “impeachment” a danno del neo-presidente va comunque costruita sia giuridicamente che politicamente, nell’immediato Bolsonaro e la destra brasiliana potrebbero essere tentati dal seguire altre vie per delegittimare o rovesciare o comunque mettere in difficoltà Lula. Nelle ore in cui i brasiliani si recavano al voto, in diverse zone del Paese – soprattutto in quelle più povere, più vicine al leader della sinistra – pattuglie della Polizia Federale i cui vertici avevano manifestato apertamente il loro sostegno all’ex capitano dell’esercito – hanno organizzato ingiustificati blocchi stradali per impedire alle auto ed ai bus che trasportavano gli elettori di Lula di raggiungere in tempo, prima della loro chiusura, i seggi dove avrebbero dovuto votare. D’altronde all’atto della proclamazione della vittoria di Lula, Bolsonaro si è chiuso in un poco rassicurante silenzio stampa, rotto solo dopo diverse ore, senza che il Presidente uscente riconoscesse la vittoria dell’avversario – mai citato per nome – ed affermando, in modo generico, solo di rimettersi a quanto stabilito dalla Costituzione. Ma soprattutto senza condannare le violenze di piazza ed i blocchi stradali eretti questa volta dai militanti di destra o stigmatizzare lo sciopero dei camionisti indetto da alcune confederazioni sindacali pro-Bolsonaro. E in America Latina, come la storia ci insegna, gli scioperi dei camionisti sono stati spesso il preannuncio di successivi e sanguinosi golpe reazionari (come nel Cile di Salvador Allende nel 1973 o nella Bolivia di Evo Morales nel 2019). Ma l’ipotesi di un colpo di Stato, sempre secondo i canoni cui ci aveva abituato la storia latino-americana nei decenni passati, guidato dalle forze armate – i cui massimi vertici erano stati rimossi circa un anno fa e sostituiti da Bolsonaro con alti ufficiali a lui fedelissimi – sembra cozzare con la necessaria “copertura” internazionale di cui un golpe militare avrebbe comunque bisogno. Se Bolsonaro può contare ancora, nonostante la sconfitta, sulla “simpatia” di figure come il premier ungherese Viktor Orban o lo spagnolo, capo del partito Vox, Santiago Abascal (che intrattiene rapporti fiduciari con tutti i centri di estrema destra dell’America centrale e meridionale), sembra non poter più disporre dell’appoggio incondizionato dell’Amministrazione USA. Infatti le posizioni assunte da Bolsonaro – astensione del Brasile in sede ONU – sulle sanzioni imposte alla Russia come ritorsione per la guerra russo-ucraina ed il rafforzamento delle relazioni commerciali tra lo Stato sudamericano e la Cina, hanno spinto il Presidente statunitense Biden a dichiarare “legittima e democratica” l’elezione di Lula. Un duro colpo, di fatto, alle aspettative di Bolsonaro, che non ha avuto miglior fortuna neppure con le elezioni di medio termine per il rinnovo del Congresso degli Stati Uniti, nelle quali il suo “padrino” nordamericano Donald Trump non ha ottenuto sui rivali democratici quel netto successo che pareva profilarsi solo qualche settimana prima. Resta solo l’incognita rappresentata dal potente Stato di Israele che con il Brasile di Bolsonaro ha stabilito, anche più degli stessi Stati Uniti, relazioni molto strette. (Basti pensare che la moglie dell’ex Presidente si è recata al voto indossando una maglietta con sopra stampata la bandiera di Israele. Ovviamente fotografata, la sua foto è stata diffusa, senza alcuna rimostranza, sulle principali reti social). Intanto dall’Italia – dove il voto dei brasiliani residenti nel nostro Paese ha premiato Lula – il Presidente del Consiglio, la fascista Giorgia Meloni, che solo pochi mesi fa, intervenendo al congresso di Vox, affermava la piena comunanza di idee su molti aspetti nelle scelte di politica internazionale con i fascisti spagnoli, ha invece inviato, probabilmente come atto di allineamento allo statunitense Biden, le sue congratulazioni all’esponente vittorioso della sinistra.
-) Brasile: una potenza economica in ascesa… tra molteplici contraddizioni
Dunque dal 1° gennaio 2023 Lula sarà di nuovo a tutti gli effetti il Presidente di un paese che conta 215 milioni di abitanti, che si estende su un territorio vastissimo e composito per varietà etnica ed ambientale e che può vantare enormi ricchezze sia del suolo che del sottosuolo. Il Brasile si colloca tra le prime dieci economie mondiali ed in quanto tale partecipa alle riunioni del G20. E fa parte del gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, Cina, India, Sudafrica) che raccoglie le cosiddette potenze economiche emergenti. Sono lontani i tempi in cui l’agricoltura e l’allevamento rappresentavano le uniche risorse economiche di questo Paese. E se ancora oggi l’agricoltura produce il 10% del PIL brasiliano e l’allevamento intensivo si è rafforzato – soprattutto a danno della Foresta Amazzonica, il più grande polmone verde del pianeta – “conquistando” nuove terre, lo sfruttamento delle enormi ricchezze minerarie ed energetiche ha consentito un deciso slancio del processo di industrializzazione del Paese tanto che oggi il Brasile si distingue a livello mondiale in molti settori industriali di vecchio o di più recente sviluppo (come nella produzione di componentistica per i settori automobilistico ed aeronautico, delle telecomunicazioni, finanche informatico). La crescita economica complessiva ed in particolare quella industriale ha favorito il costituirsi di una classe media che è andata acquisendo negli anni una sua fisionomia sempre più spiccata. Ciò non ha comunque evitato il permanere di fatto di una forte polarizzazione sociale tra due classi: una maggioranza povera, se non poverissima, ed una minoranza spesso estremamente ricca. Le stime riportano dati drammatici: 33,1 milioni di brasiliani soffrono quotidianamente la fame; 100 milioni vivono nella povertà (mancanza di lavoro, assenza di istruzione e di assistenza sanitaria). Negli anni della pandemia da covid il numero di persone affamate è aumentato del 73%; il reddito medio della popolazione è il più basso degli ultimi dieci anni. Di fatto il 5% dei brasiliani concentra nelle proprie mani una ricchezza equivalente a quella del “restante” 95%. E la forbice continua ad allargarsi sempre più. A fronte di questa situazione così contraddittoria la strada che Lula si trova a dover percorrere dopo la sua rielezione appare tutta in salita ed irta di ostacoli. In un Paese letteralmente spaccato a metà, con una classe media le cui oscillazioni politiche possono decidere – soprattutto nelle più grandi città – le sorti dello scontro tra destra e sinistra, con una risposta alla sconfitta da parte delle classi privilegiate che non esita a sfociare anche nella violenza, con una difficoltà del proletariato e delle classi popolari ad organizzarsi per far fronte più efficacemente alla reazione padronale e fascista, il neo-presidente che tipo di programma politico intende sviluppare per – come ha più volte detto o scritto – “far trionfare la democrazia… restituire ai brasiliani una vita dignitosa…rendere il Brasile protagonista nel mondo… ricostruire l’anima del Paese”?
-) Il progetto politico di Lula
Nel discorso pronunciato subito dopo aver appreso l’esito vittorioso del ballottaggio, Lula ha elencato i punti salienti del suo futuro programma di governo, peraltro già anticipati non solo nei comizi elettorali tenuti in tante zone del Paese, in confronti televisivi, in lettere aperte pubblicate sui principali organi di stampa, ma anche in occasione di svariati incontri a livello internazionale con leaders politici di altri stati e con istituzioni economiche e finanziarie sovranazionali (non ultimo il World Economic Forum). Dopo aver sottolineato come il suo successo fosse “la vittoria di un enorme movimento democratico che si è formato al di sopra dei partiti politici, degli interessi personali o delle ideologie, affinché la democrazia potesse trionfare”, il filo conduttore che percorre quella che appare, alla fin fine, una sorta di dichiarazione d’intenti – cui dare sostanza in futuro con provvedimenti e leggi – è dato dai frequenti richiami all’unità del popolo brasiliano ed alla concordia nazionale intorno all’idea di un “Brasile per tutti”. Un Paese, quindi, dove ci sia più democrazia e partecipazione popolare – con la ripresa delle Conferenze Nazionali tematiche (gli “stakeholder”, con termine mutuato dal linguaggio del “marketing”!!) – una sanità pubblica, un’istruzione ed una cultura accessibili ad ogni cittadino brasiliano, un rilancio dell’economia – da qui un appello anche al ceto imprenditoriale nazionale ed agli investitori esteri – che possa consentire un efficace contrasto al dramma della disoccupazione, l’aumento degli stipendi, la lotta alla fame, una vita dignitosa per gli uomini e per le donne del Brasile. E quindi l’avvio di politiche di contrasto alla violenza verso le donne e per la parità tra i sessi; di lotta al razzismo ed alla discriminazione -piaghe manifestatesi con forza durante la Presidenza Bolsonaro, anche per i forti legami instauratisi tra l’estrema destra brasiliana ed i gruppi suprematisti bianchi attivi negli USA. E poi, in chiave ecologica e di interesse planetario, la difesa della foresta Amazzonica dagli interessi commerciali e speculativi (disboscamento di intere aree a vantaggio di una produzione agricola od animale a carattere intensivo o per la vendita del legno oppure per le estrazioni minerarie). E la lotta al fascismo che, sempre con Bolsonaro alla presidenza, ha seminato odio e violenza contro oppositori politici e minoranze etniche (soprattutto indigene) e di genere. Ricostruire il Paese in ogni sua dimensione -politica, economica, morale, solidaristica- come auspicato da Lula non sarà certo un’impresa facile ed il nuovo Presidente dimostra di esserne perfettamente consapevole nel momento in cui chiede la ripresa del dialogo, all’interno del dettato costituzionale, con il Potere Legislativo – in primis il Parlamento – e con il Potere Giudiziario – cioè la Magistratura, fortemente infiltrata da elementi vicini al bolsonarismo – ed anche con ogni altra istituzione del Paese (forze armate, governatori, sindaci). Oppure quando si appella alla società civile o alle comunità religiose – non dimenticando, forse, il forte contributo offerto dalla potente Chiesa Evangelica alla campagna elettorale del suo rivale di destra. Come del resto c’è in Lula la consapevolezza che parte determinante del suo progetto politico si gioca sul terreno delle scelte di politica internazionale, in una fase storica in cui il mondo intero vive tra tensioni e pericoli inimmaginabili fino a pochi mesi fa.
-) Dopo la vittoria di Lula: quale politica estera per il Brasile?
Il primo risultato che Lula si ripromette di conseguire, al fine di restituire al Brasile un ruolo da protagonista – offuscatosi, a suo giudizio, con la presidenza Bolsonaro – sulla scena mondiale, è quello di fare del suo Paese il trascinatore di un rinnovato processo di integrazione regionale nell’area centro-meridionale del continente americano, rilanciando, su basi paritarie e solidali, organismi come il Mercosur e la Celac. La sua attenzione è rivolta innanzitutto a quei Paesi latino americani che sono diretti da governi che si collocano, sia pure in misura diversa, nel campo progressista e di sinistra. Un blocco di Paesi – anche numericamente consistente – nei quali si è riscontrata effettivamente grande attesa per questo appuntamento elettorale brasiliano ed il cui esito è stato quindi salutato con soddisfazione -come testimoniano le immediate prese di posizione di diversi presidenti latinoamericani, a partire dal boliviano Luis Arce. D’altra parte, dopo la ventata progressista -sollevata soprattutto dal Venezuela bolivariano- che percorse l’intero continente latinoamericano nel primo decennio del nuovo secolo, i vari processi di democratizzazione, di crescita sociale, di integrazione economica nella regione sono andati progressivamente affievolendosi. Costretto il Venezuela, dopo la morte di Hugo Chavez, ad assumere una posizione essenzialmente difensiva a seguito della “guerra ibrida” scatenatagli contro dall’imperialismo USA, nessun altro Paese dell’America Latina ha avuto la forza di raccogliere il testimone lasciato dal chavismo. Anche i Paesi che negli ultimi anni hanno compiuto una virata a “sinistra” – Messico dapprima, Cile e Colombia da ultimo – segnano il passo nei loro propositi quantomeno riformatori, dovendo fare i conti con l’ingerenza dei maggiori organismi economici e finanziari mondiali che hanno “ottenuto” di piazzare propri rappresentanti, soprattutto nei dicasteri economici, nei governi dei vari Stati. Da qui la speranza che con il ritorno della sinistra alla guida di un grande paese come il Brasile, la riscossa latinoamericana possa nuovamente rimettersi in cammino. Altro obbiettivo dichiarato della futura politica estera di Lula sarà quello di una più incisiva presenza del Brasile in Africa. Questo in virtù di maggiori investimenti di personale tecnico, di capitali e di know-how tecnologico in diversi stati del continente africano, anche se tutto ciò dovrà avvenire sulla base di condizioni economiche e commerciali concordate ed eque. Un punto saliente – anche perché foriero di possibili conseguenze per questo paese nello scenario politico mondiale – riguarda le relazioni del Brasile con l’area, di cui è membro fondatore, dei Brics. Lula, in tal senso, rilancia la presenza e l’interazione del suo paese nel gruppo delle economie emergenti. Anzi, lo sviluppo delle relazioni commerciali e della cooperazione tecnologica con gli altri Stati componenti i Brics viene visto come determinante per l’ulteriore crescita industriale – anche in direzione del “green” e del digitale – del paese sudamericano. Certo è che per un Brasile che aspira a proporsi, dopo Cina e Russia, come “terza forza” del gruppo, si tratterà comunque di recuperare il terreno perduto negli ultimi anni soprattutto nei confronti dell’India, che pare essere riuscita a contenere con più efficacia, rispetto allo stato sudamericano, i danni provocati alla propria economia dalla crisi pandemica. Infine Lula non può non esimersi dall’affrontare il quadro dei rapporti con gli Stati Uniti da un lato, con l’Europa dall’altro. Lula apre le porte ad entrambi verso un partenariato commerciale più equo e rispettoso del suo paese, affinché si ponga fine ad una considerazione del Brasile unicamente come fonte di profitto per le grandi multinazionali occidentali e di spoliazione continua delle sue ricchezze e materie prime. Vero è che la ricerca di una collaborazione tra pari sembra scontrarsi con le posizioni assunte da Lula in merito al conflitto russo-ucraino. Infatti Lula non ha nascosto la sua ostilità verso l’Ucraina di Zelensky ed una certa comprensione verso le ragioni che hanno spinto la Russia ad attaccare il paese vicino. Da qui una serie di critiche nei confronti sia degli USA per il loro sostegno a tutto campo al regime di Kiev che della UE e della Nato per il loro tentativo di forzare la mano sull’ingresso dell’Ucraina nei due diversi organismi.
-) In conclusione… quale futuro per il “gigante sudamericano”?
Dunque appare chiaro da ciò che si è scritto precedentemente che il terzo mandato presidenziale di Lula prende avvio in un contesto oggettivamente difficile. E ciò sia sul piano interno che su quello internazionale. Costruire il nuovo “Brasile della speranza” non sarà un’impresa facile per il pur navigato leader della sinistra “carioca”. In un paese letteralmente spaccato a metà; con istituzioni ed apparati locali e statali a lui sovente ostili; con un movimento popolare indebolito dopo i quattro anni di presidenza del reazionario Bolsonaro a fronte di un’estrema destra propensa a propositi golpisti; con un notevole potenziale economico a disposizione ma anche con contrasti e divari sociali e culturali drammatici, riuscirà Lula a ricomporre la lacerata società brasiliana, a controllare le forze contrarie al nuovo corso politico, ad avviare un processo di democratizzazione, di partecipazione popolare, di maggiore giustizia sociale? Il presidente “di ritorno” – come qualcuno lo ha definito – ideologicamente ancorato alla sinistra progressista latinoamericana ma molto pragmatico sul piano politico, ha deciso di scendere a patti con forze politiche dai connotati moderati ed ambigui. Questa scelta rende difficile poter pensare che il “gigante sudamericano” si possa incamminare quantomeno verso un radicalismo politico – e, a maggior ragione, verso ipotetici sbocchi rivoluzionari – che prepari almeno il terreno a soluzioni più avanzate. Sicuramente verrà rivolta una maggiore attenzione alla difesa dei diritti violati di diverse componenti della società brasiliana – dalle donne alle minoranze etniche e di genere – al sostegno delle comunità indigene ed al loro “sviluppo sostenibile” sul piano economico; alla salvaguardia della Foresta Amazzonica – su cui sono puntati gli occhi del mondo intero; al contrasto alla fame ed alla povertà – in tutte le drammatiche situazioni con cui essa si manifesta. Tutto ciò potrà portare alla riproposizione di un nuovo “welfare” verde-oro – drasticamente ridimensionato dalla gestione Bolsonaro – senza andare però ad intaccare in profondità i rapporti di forza esistenti tra le principali classi sociali in lotta tra loro. Anzi, sotto la pressione esercitata da diversi organismi sovranazionali e globalisti (FMI, Banca Mondiale, WEF), il livello di sfruttamento della classe operaia e del mondo contadino brasiliani potrebbe paradossalmente accrescersi nei prossimi anni. Questo finirebbe per alimentare nel proletariato brasiliano sentimenti di malcontento, disillusione, rabbia nei confronti di quello stesso governo di sinistra che, con il proprio voto, ha contribuito a far vincere. Anche il contesto internazionale costituisce per il Brasile di Lula un banco di prova non indifferente. Il “presidente-operaio” – altra definizione attribuita al nuovo inquilino del Planalto – ha più volte rivendicato la necessità per il Paese di adottare una politica estera “convincente”, laddove le scelte di campo di Bolsonaro avrebbero ridotto il Brasile ad un “triste ruolo di paria del mondo”, di asservimento ai paesi – gli USA in primis – più ricchi e potenti (anche se il presidente uscente, l’abbiamo ricordato, si è opposto, proprio in nome dell’interesse nazionale, all’approvazione delle sanzioni contro la Russia ed al raffreddamento dei rapporti con la Cina). Lula propone di fatto una politica estera dinamica che renda il Brasile protagonista in molteplici ambiti internazionali, che lo ponga al centro di processi politici ed economici su scala mondiale: dall’integrazione regionale latinoamericana all’asse Brasile-Africa (o perlomeno parte di essa); da un maggiore coinvolgimento nel gruppo dei Brics (senza necessariamente compiere quella svolta filorussa paventata da molti analisti) alle relazioni tutte da ridefinire con gli Stati Uniti e l’Unione Europea; fino alla richiesta di una rifondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (in modo che siano garantiti, attraverso la riforma del Consiglio di Sicurezza e l’abolizione del diritto di veto, più spazio e forza ai Paesi emergenti). Sono queste posizioni che, sebbene non scevre da una difesa della propria sovranità nazionale e di interessi specifici, fanno di Lula un potenziale “campione” di quella concezione multipolare che si pone oggi in forte contrasto – che può palesarsi anche in forme “cruente”, come testimoniato dalla guerra russo-ucraina – con il modello unipolare, in declino, incarnato dagli USA. (Un concetto peraltro, quello del multipolarismo, che giudicato da molti, anche a sinistra, come un possibile assetto più democratico nelle relazioni tra gli Stati o tra blocchi di Stati, può contenere in sé la tendenza ad assumere forme, comunque nefaste per le sorti dei popoli e dei lavoratori, di “multipoli-imperialismo”. Proprio come Cina e Russia, paesi capofila dei Brics, stanno rivelando, seppur in modi diversi, con il loro agire in varie parti del mondo). Nel concreto la politica estera di Lula potrebbe risolversi in una pragmatica e costante ricerca di un equilibrio tra il cosiddetto “Miliardo d’Oro” (gli Usa, i paesi della UE ed alcuni altri riconducibili alle economie “sviluppate” del pianeta) ed il Sud del mondo – con alla testa i Brics – che reclama maggiore considerazione delle proprie esigenze ed aspirazioni. Di fronte ad una situazione politica interna assai precaria e ad un contesto sociale potenzialmente esplosivo; ad un nuovo corso politico che pare collocarsi entro i limiti angusti di una linea governativa sostanzialmente socialdemocratica – forse addirittura più arretrata delle due precedenti esperienze presidenziali di Lula; ad uno scenario internazionale in continua e pericolosa evoluzione, esiste nella sinistra brasiliana una forza politica – in particolare comunista – o un movimento sociale in grado di far compiere alla lotta di classe un salto di qualità, indirizzando il proletariato di quel paese verso orizzonti politici più avanzati?
-) Lula, il PT… e poi?
A parte diversi partiti politici di tendenza socialista/democratico-laburista, il resto della sinistra brasiliana appare complessivamente fragile, schiacciata dalla presenza del PT e condizionata da una diffusione territoriale non sempre uniforme. In particolare il movimento comunista brasiliano rispecchia le difficoltà politiche ed ideologiche che vive il movimento comunista su scala mondiale. Convergenze (poche) e scissioni (diverse), alleanze locali e nazionali con il PT di Lula cui fanno seguito rotture clamorose, caratterizzano la vita politica delle diverse formazioni politiche di orientamento comunista che si muovono sulla scena politico-elettorale del Brasile. Proviamo a delineare, sia pure per sommi capi, le posizioni dei principali raggruppamenti. -) Fondato nel 1922, il Partito Comunista Brasiliano (PCB), è oggi il più vecchio partito politico esistente in Brasile ma risulta essere anche il più debole tra i vari gruppi comunisti, attestandosi sul piano elettorale tra lo 0,4-0,8% dei voti (non dispone pertanto di alcuna rappresentanza parlamentare). Dopo aver subito la scissione dell’ala trotskista nel lontano 1937 e della componente maoista nel 1962 – che fondò il Partito Comunista del Brasile, il PcdoB – il PCB si avviò durante la dittatura militare (1° aprile 1964-15 marzo 1985) verso forme di opposizione democratica e non armata – diversamente dal PcdoB – al governo autoritario, cercando soprattutto di legarsi a quelle lotte di tipo “sindacale” che, tra molteplici difficoltà, facevano capolino nel Brasile dei militari al potere. Nel 1992, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, il PCB tenne un congresso di scioglimento del partito e di fondazione di un nuovo raggruppamento – il Partito Popolare Socialista, PPS – su posizioni di sinistra socialista, accentuando quindi la “via democratica al socialismo”. Ma una minoranza dei delegati decise invece di mantenere in vita il PCB e, facendo autocritica delle posizioni assunte negli anni precedenti, di rilanciare l’opzione rivoluzionaria e di classe attraverso la costruzione di un ampio fronte anti-capitalista e anti-imperialista. Se nel 1998 e nel 2002 il PCB sostenne, nella sua visione frontista e rivoluzionaria, la candidatura a presidente di Lula, la successiva rottura con il PT ha portato questo partito a nuove e precarie alleanze con altri partiti “rivoluzionari” o a contare solo sulle proprie limitate forze. -) Costituitosi nel febbraio del 1962 sulla scia della rottura tra la Cina maoista e l’Unione Sovietica e con simpatie verso la rivoluzione cubana, il PCdoB si trovò assai presto a fare i conti con la violenza della dittatura militare, cui il giovane partito comunista -posto al bando- rispose organizzando, sia pure limitatamente ad alcune zone del vasto territorio brasiliano, la lotta armata. Ma la repressione dei militari e dei gruppi paramilitari di matrice fascista fu feroce: massacri, torture, sequestri decimarono dirigenti e militanti ed il partito rischiò di dissolversi a pochi anni dalla nascita. Con la fine della dittatura il PCdoB si risollevò, operando soprattutto all’interno dei movimenti sindacali e studenteschi che stavano progressivamente rianimando la vita sociale e politica del Paese. Dal 1989, poi, il PCdoB si è strettamente legato al PT, appoggiando ripetutamente i candidati petisti alla presidenza del Brasile. Ma il momento di maggiore espansione di questo partito è stato nel 1992 con il movimento popolare “Fora Collor” che portò alla destituzione del Presidente Collor de Mello in un contesto di grave crisi economica e di corruzione dilagante. Collocatosi in origine rigorosamente all’interno della tradizione marxista-leninista, il PCdoB, dopo aver etichettato come revisionista la svolta kruscioviana del XX Congresso del PCUS, ruppe i rapporti anche con la Cina a seguito delle riforme economiche in senso capitalistico avviate nel paese asiatico dal 1979, stabilendo invece un’intesa con la lontana Albania. Ma la caduta del socialismo anche nel “paese delle aquile” (1991), indusse questa organizzazione ad un ripensamento teorico (8° Congresso del 1992) che portò, pur ribadendo l’adesione agli ideali comunisti, il PCdoB a criticare l’esperienza bolscevica. Da quel momento il partito si è caratterizzato per una sua crescente istituzionalizzazione all’interno del sistema politico brasiliano. L’alleanza con il PT, quando vincente, ha consentito di volta in volta ai comunisti del PCdoB di disporre di una discreta pattuglia di parlamentari (14/15 deputati, 2/3 senatori), di occupare prestigiose cariche istituzionali (la Presidenza del Parlamento Nazionale, alcuni ministeri), di governare con un proprio rappresentante lo Stato di Maranhao (il più povero del Brasile). “Consolidare la presenza comunista nelle istituzioni, espandere l’influenza sulle classi popolari e sostenere l’alleanza delle forze democratiche e progressiste” costituiscono alcuni dei capisaldi della politica, anche elettorale, del PCdoB. -) Dallo scioglimento, nel 1992, del PCB -prontamente rifondato su iniziativa di una minoranza di militanti contrari alla sua soppressione- è sorto il Partito Popolare Socialista. Il PPS vale la pena ricordarlo solo per la presenza al suo interno di componenti marxiste che offrono a questa formazione politica una “immeritata” copertura, a sinistra, presso strati popolari e gruppi anche consistenti di lavoratori. Tanto che il PPS può contare spesso su gruppi parlamentari tali da poter effettivamente condizionare le scelte presidenziali e governative. Questo partito si distingue per un “trasformismo” che lo ha portato, di elezione in elezione, ora ad appoggiare il PT di Lula, ora ad allearsi con partiti di orientamento social-laburista, ora a collocarsi in eterogenee coalizioni “anti-luliste” assieme a forze moderate e di centro-destra (tra cui, in passato, il PSdB del già ricordato Alckim). Il PPS, pur rivendicando l’eredità del PCB e della “migliore” tradizione del pensiero marxista (!!), si definisce, tra i vari passaggi, un partito “umanista e socialista, democratico e laico, non dogmatico, non settario, pluralistico, anti-totalitario ed anti-verticistico”. Nel rinnegare il centralismo democratico, il PPS dichiara di aprirsi al filone dell’umanesimo libertario. -) Anche il PT ha subito a sua volta una scissione a sinistra che è sfociata nella formazione del Partito Socialismo e Libertà (PsoL). Nel 2004 alcuni parlamentari, seguiti da diversi dirigenti e militanti del partito di Lula, dopo aver denunciato la politica conservatrice del partito, le sue alleanze troppo disinvolte, la corruzione e l’assenza di democrazia al suo interno, decisero di fondare questo nuovo movimento, che si colloca di fatto in un ambito di sinistra radicale ed anticapitalista. La sua comparsa sulla scena politica del Paese rianimò la fiducia nella lotta politica di molti iscritti al PT ma anche di intellettuali e militanti provenienti da altri partiti della sinistra brasiliana. Tanto che nelle elezioni del 2006 una coalizione – che comprendeva anche il PCB ed il PUSL (Partito Unificato Socialista dei Lavoratori) – imperniata sul PSoL sfiorò il 7% dei voti, riuscendo a portare in Parlamento quattro rappresentanti, tutti di Socialismo e Libertà. (Tra l’altro questa alleanza era stata sostenuta a livello internazionale da intellettuali quali Noam Chomsky, Ken Loach, Slavoj Zizek). Pur continuando a mantenere nelle successive tornate elettorali una rappresentanza parlamentare, il PSoL non ha più raggiunto una così rilevante percentuale di consensi. Al pari degli altri partiti della sinistra brasiliana anche il PSoL conta purtroppo diversi dirigenti e militanti uccisi, spesso in circostanze misteriose (!!), durante lo svolgimento della propria attività politica (cioè alla testa di lotte sociali, in azioni di denuncia, in iniziative di sostegno ai poveri delle favelas delle grandi città ecc.). Il caso più sconcertante fu quello dell’omicidio, nel maggio 2018, di Marielle Franco, attivista dei diritti umani e consigliera del PSoL nella municipalità di Rio de Janeiro. Un assassinio che vide coinvolti apparati della polizia, i famigerati “squadroni della morte” e potenti bande di criminalità comune. Dopo il risultato del ballottaggio dello scorso 30 ottobre, il PSoL è attraversato da una profonda spaccatura tra un gruppo dirigente disposto in larga parte ad appoggiare – addirittura, forse, partecipando con propri rappresentanti al futuro esecutivo – il governo Lula-Alckim che si va profilando e una componente maggioritaria di militanti – guidati dall’area di Esquerda Marxista – che si batte affinché il PsoL non rinneghi le ragioni della sua stessa nascita e si ponga risolutamente all’opposizione di un governo giudicato antipopolare e contrario agli interessi del proletariato. Il rischio di un’ennesima scissione nella sinistra brasiliana è assai alto. Dunque la sinistra politica brasiliana nel suo complesso – ed in particolare quella di matrice comunista e classista – non pare in grado di offrire una valida alternativa al moderatismo ed al pragmatismo del PT e del suo leader. Ciò stride -ed anzi rischia di condizionarne negativamente lo sviluppo – con il dispiegarsi di esperienze sociali e sindacali che, pur tra molteplici ostacoli, si sono comunque manifestate con forza nel Paese soprattutto negli anni difficili della presidenza Bolsonaro. Nei quattro anni (2018-2022) di governo della destra – un’accozzaglia litigiosa di nostalgici della dittatura militare, di neoliberisti, di fanatici evangelici, di esponenti di gruppi razzisti – le masse popolari e proletarie brasiliane hanno subito attacchi violentissimi sotto ogni punto di vista: dal drastico ridimensionamento del Welfare fondato sull’intervento statale alla controriforma pensionistica; dalla riduzione (fino al 30%) dei fondi destinati all’istruzione sia scolastica che universitaria alla compressione dei diritti sindacali nelle fabbriche; fino alla distruzione di parti consistenti della Foresta Amazzonica e alle speculazioni edilizie in zone costiere ancora incontaminate. Eppure, nonostante la forte repressione poliziesca e giudiziaria, la risposta popolare a queste, come ad altre misure, non è mancata. Milioni di brasiliani sono scesi in piazza nel corso dei mesi al grido di “Fora Bolsonaro”: da un movimento ambientalista sempre più cosciente e politicizzato ai movimenti a difesa dei diritti delle donne, delle popolazioni indigene ed afro-brasiliane; dalle associazioni dei dipendenti pubblici all’Unione Nazionale degli Studenti che, insieme agli insegnati, hanno cercato di reagire alla campagna governativa scatenata, a giustificazione dei tagli all’istruzione, contro la presunta “egemonia culturale marxista dominante nelle scuole del Paese”. Alla fine si è giunti alla proclamazione di diversi scioperi generali che hanno interessato almeno 45 milioni di lavoratori in 380 città brasiliane e che, soprattutto, hanno visto finalmente la partecipazione di ampi settori operai (in particolare dell’industria mineraria, della produzione petrolifera, della metalmeccanica e della componentistica per auto). Fino a quel momento infatti la classe operaia, pur “scalpitante”, era stata tenuta a freno dalle oscillazioni delle principali organizzazioni sindacali presenti nel Paese, che facevano seguito alla tiepidezza con cui il PT aveva guardato a questo rinnovato protagonismo popolare. Non va infatti dimenticato che alcuni dei provvedimenti -ad esempio l’inasprimento dei requisiti pensionistici o determinati accordi con i grandi produttori agroalimentari in Amazzonia- adottati dalla destra, erano già stati allo studio dei precedenti governi della sinistra (da Lula alla Roussef, la quale, tra l’altro, non aveva esitato a reprimere le proteste di piazza che ne erano conseguite!!). Le incertezze, gli arretramenti, l’inadeguatezza del movimento sindacale pur nella sua varietà di sigle (CUT, CNT, ILOCT, FS) può costituire, quindi, motivo di “depressione” per quelle spinte provenienti “dal basso” (movimenti sociali, mondo del lavoro) che potrebbero viceversa muovere in direzione di un vero e profondo mutamento dei rapporti di forza tra le diverse classi in lotta.
-) La CUT e gli altri sindacati brasiliani
La CUT (Centrale Unica dei Lavoratori) è il più forte sindacato del Brasile, potendo contare su poco meno di 24 milioni di iscritti (il 36% di tutti i lavoratori comunque sindacalizzati), ed il quinto nel mondo per numero di aderenti. Nata nel 1983, con il declinare della dittatura militare e la progressiva ripresa del movimento sindacale, la CUT faceva seguito alla fondazione (1980) del Partito dei Lavoratori, ponendosi, di fatto, come una sorta di “cinghia di trasmissione” del partito di Lula. Questa stretta “alleanza” tra sindacato e partito ha consentito a quest’ultimo di poter affondare solide radici nella classe operaia brasiliana, anche con il risultato di riuscire in tal modo a contenere – con grande soddisfazione innanzitutto del ceto imprenditoriale nazionale e straniero – le spinte più radicali del proletariato. È pur vero che in determinati momenti la contiguità tra la CUT ed il PT -una volta chiamato quest’ultimo ad esercitare il potere- ha subito comunque delle fratture ed il sindacato, di fronte ad atteggiamenti particolarmente impopolari dell’alleato politico (dalle resistenze governative alle richieste di aumento del salario minimo e di riduzione dell’orario di lavoro all’opposizione verso disegni di legge sulla esternalizzazione di molti servizi pubblici e sulla precarizzazione del lavoro, solo per citarne alcuni) ha scelto la via della protesta. Ma gli accomodamenti con il partito petista e le tergiversazioni – non ultima l’invito rivolto sovente agli operai di scioperare ma restando a casa ed evitando di scendere in piazza – del principale sindacato ha avuto come conseguenza il verificarsi di diverse scissioni. Nel 2004 nasceva, quindi, La CNT (Coordinamento Nazionale dei Lavoratori) – una sorta di movimento di lavoratori autoconvocati – che sosteneva un confronto più duro con il governo, qualunque fosse il suo “colore”. L’anno seguente (2005) si costituiva invece l’ILOCT (Strumento di lotta e organizzazione della classe lavoratrice) di orientamento comunista. Infine, nel 1991 venne fondata, in dichiarato contrasto con la CUT, Forza Sindacale (FS), la quale, meno compromessa sul piano politico e volta al raggiungimento di obbiettivi schiettamente sindacali, è arrivata ad annoverare nelle sue fila oltre 8 milioni di aderenti. La rivalità tra le diverse sigle sindacali – anche se talvolta, soprattutto su pressione delle rispettive basi, le varie dirigenze hanno comunque promosso manifestazioni unitarie di protesta e di lotta; la subordinazione dell’opposizione sociale e sindacale ai giochi istituzionali dei partiti della sinistra (compresi i comunisti); il timore, quindi, che il protagonismo operaio e popolare possa sfuggire al controllo, non solo sindacale ma anche politico, dei diversi gruppi dirigenti, possono costituire a tutt’oggi, come si è già scritto, un serio ostacolo all’avvio di un movimento “dal basso” di trasformazione quantomeno radicale, se non rivoluzionaria, della società brasiliana. Un movimento sociale, invece, che è andato acquisendo sempre maggiore autorevolezza e maturità politica è quello del Movimento Sem Terra (SMT), cioè del Movimento dei Senza Terra. Si tratta di un movimento di lotta contadino (piccoli coltivatori, braccianti, famiglie rurali povere) che nel corso degli anni è diventato forse il più significativo dei movimenti sociali che attraversano il continente latino-americano. Questo movimento si è presentato per la prima volta nel panorama sociale brasiliano nel 1985 con l’occupazione da parte di 7000 lavoratori della fazenda Annoni, nello Stato del Rio Grande do Soul. Dopo otto anni di “esistenza e resistenza”, gli occupanti ottennero che 9300 ettari di quelle terre, prima oggetto della speculazione fondiaria, fossero riconosciuti come terre di riforma agraria. (Oggi 423 famiglie vivono e lavorano in quell’area recuperata ai bisogni popolari). Da quel momento la costruzione di questo percorso collettivo di riscatto sociale si è notevolmente rafforzata sia sul piano della forza numerica che su quello dell’estensione territoriale. Certamente questa crescita non è stata priva di sacrifici. All’occupazione di terre abbandonate o detenute illegalmente da ricchi latifondisti sulla base di false attestazioni di proprietà, oppure di terreni pubblici che si volevano svenduti a società speculative private, la risposta dei proprietari terrieri, dei loro eserciti privati, dello stesso Stato brasiliano è stata durissima. Centinaia sono i contadini, i militanti sindacali, gli attivisti dei diritti umani, caduti sotto la scure della repressione. Eppure, nonostante i pestaggi, le carcerazioni, le torture, gli assassinii, il MST ha resistito, affrontando con risolutezza e lungimiranza anche i quattro anni di “pugno di ferro” dell’amministrazione Bolsonaro. Innanzitutto stabilendo importanti alleanze con altri movimenti sociali attivi nel Paese: dal MTST, cioè il Movimento dei Lavoratori Senza Tetto – movimento prevalentemente urbano che organizza occupazioni di alloggi ed auto-costruzioni in nome del diritto all’abitare – a vari movimenti sorti a difesa dell’ambiente o dei diritti di minoranze etniche o di genere. Un insieme di forze sociali che sono infine confluite nel FPSM, Fronte del Popolo Senza Paura (Frente Povo Sin Medo). Quindi, “costringendo” di fatto diversi partiti della sinistra progressista e comunista a raccogliersi a loro volta in un, sia pur debole, Fronte del Brasile Popolare (Frente Brasil Popular). La maturazione politica del MST è apparsa evidente in questi anni dall’ampliamento delle tematiche affrontate direttamente dal movimento: non solo le occupazioni di terre e la battaglia per una più ampia riforma agraria ma anche il contrasto al fascismo, alla svendita del patrimonio pubblico o alla cessione delle ricchezze nazionali alle grandi multinazionali fino alla difesa delle conquiste sociali e civili sancite dalla Costituzione e messe in pericolo dalla destra. Alcuni di questi temi sono stati all’origine anche di aspri scontri con il Partito dei Lavoratori, al quale sono stati rimproverati i frequenti episodi di corruzione e di malversazione di diversi suoi dirigenti, gli arditi compromessi con forze politiche moderate, molte decisioni prese in campo economico e sociale ed attuate, in chiave antipopolare, dai suoi governi (in particolare quello presieduto da Dilma Rousseff). Malgrado ciò l’appoggio del Movimento Sem Terra al PT non è comunque complessivamente venuto meno anche in queste ultime elezioni presidenziali, conclusesi con un incerto “testa a testa” tra Lula ed il fascista Bolsonaro. Certo è che questo sostegno non appare più incondizionato. Anzi la dirigenza del MST ha dichiarato che terrà alta la vigilanza sull’operato del nuovo esecutivo e pronta la mobilitazione a tutela delle rivendicazioni specifiche e generali sia del proprio movimento che di tutti gli altri movimenti sociali in lotta in terra brasiliana.
… Dopo il 1° gennaio 2023
Il 1° gennaio, al termine di una cerimonia di insediamento svoltasi con il timore, più che giustificato, di possibili attentati, Lula ha finalmente dato avvio al suo terzo mandato presidenziale, chiudendo la fase (novembre-dicembre 2022) del cosiddetto “gabinetto di transizione” che, disertato da Bolsonaro, ha scadenzato il passaggio dei poteri dalla precedente amministrazione di destra a quella di “sinistra”. Nel giro di pochi giorni il nuovo presidente del Brasile ha dovuto far fronte – come era del resto prevedibile – ad una situazione politica interna assai complessa, caratterizzata sia dalla reazione violenta della destra al suo definitivo insediamento che dalla ricerca di difficili equilibri nella composizione del suo governo.
-) Tentato golpe o velleitaria sommossa?
Mentre in tutto il Paese si registravano ancora violenze di piazza, blocchi stradali, scioperi indetti da sindacati vicini a Bolsonaro (con gravi conseguenze per i rifornimenti di negozi e supermercati), l’8 gennaio, nella capitale Brasilia, migliaia di militanti di estrema destra davano l’assalto al Palazzo del Governo, a quello del Parlamento e ad altre sedi istituzionali. Un’azione che ha ricordato l’attacco del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Donald Trump. Il tardivo intervento – in un rimpallo di responsabilità e di accuse di complicità con i manifestanti – della polizia e dell’esercito ha posto fine alle violenze ed ai vandalismi degli assalitori. In quella drammatica giornata si è consumato un vero tentativo di colpo di stato o i disordini avvenuti al Planalto si sono rivelati alla fin fine solo un atto estremo e disperato della destra brasiliana per impedire “il ritorno del marxismo” alla guida del Paese? Dopo settimane di picchettaggio dinanzi ai cancelli delle caserme della capitale a paventare l’incipiente pericolo “rosso”, l’assalto del 6 gennaio costituiva probabilmente nelle intenzioni dei dimostranti la miccia che avrebbe dovuto innescare l’azione golpista delle forze armate. Ma così non è stato. Perché? Innanzitutto la “solidarietà” della comunità internazionale – non ultimi l’amministrazione Usa, l’Unione Europea, i più influenti mass-media occidentali – che si è prontamente compattata attorno a Lula e alla “democrazia” brasiliana hanno reso evidente agli alti vertici delle forze armate che un loro pronunciamento non avrebbe potuto contare sulla necessaria copertura internazionale. Poi, l’assenza dal “teatro delle operazioni” di Bolsonaro – rifugiatosi prudentemente in Florida, da dove ha seguito il susseguirsi degli eventi- non ha certo giovato alla causa dei suoi seguaci. Ora la posizione dell’ex Presidente – malgrado la sua successiva dichiarazione di voler far ritorno in patria – appare assai indebolita, tanto che le decisioni che alcuni Tribunali statali devono ancora prendere in merito ai ricorsi presentati dai bolsonaristi contro l’esito del voto di ballottaggio nelle rispettive giurisdizioni territoriali, appaiono sempre più scontate a favore della vittoria lulista. E nonostante che, in caso di elezioni politiche anticipate, il Partito Social Liberale di Bolsonaro potrebbe oggi, secondo alcuni sondaggi, diventare il primo partito del Brasile – prosciugando il bacino elettorale, soprattutto nei settori di ceto medio, di diversi partiti moderati e conservatori – è assai probabile che la destra brasiliana si ponga da subito alla ricerca di un nuovo e meno compromesso leader. Infine la nomina a Ministro della Difesa dell’ex giudice Monteiro Filho, assai ben visto negli ambienti militari – tanto che lo stesso Bolsonaro aveva pensato di conferirgli il medesimo incarico in caso di sua vittoria – ha probabilmente rassicurato le forze armate circa i propositi di riforma dell’apparato militare ipotizzati da alcuni settori della sinistra brasiliana e che nella considerazione degli alti vertici militari apparivano come l’avvio di una sorta di “chavizzazione” delle forze armate brasiliane. Ciò non ha comunque impedito al nuovo Ministro della Giustizia, l’ex governatore ed ex giudice Flavio Dino, di ottenere, dopo l’assalto al Planalto, la destituzione e la messa in stato d’accusa di diversi alti ufficiali dell’esercito e della polizia in servizio presso la capitale e di far eseguire più di 1500 arresti tra i rivoltosi, compresi alcuni imprenditori che avevano finanziato la sommossa e un buon numero di ex militari ed ex poliziotti che avevano partecipato all’invasione della cittadella delle istituzioni brasiliane. La decisa risposta di Dino – uomo molto vicino al Presidente Lula – alle violenze dell’8 gennaio, è stato motivo di un forte scontro tra i due ministri – a tal punto che Monteiro Filho ha minacciato di dimettersi. Ma questo non sembra essere che il primo caso di una lunga serie di probabili situazioni di tensione e di attrito all’interno della nuova compagine governativa brasiliana.
-) Il governo Lula: una “variopinta” Torre di Babele
Il nuovo governo Lula conta 37 ministri – in luogo dei 23 che componevano il governo Bolsonaro – e in esso vi sono rappresentati ben 11 tra partiti di vario orientamento e movimenti espressione della società civile brasiliana. 11 ministeri sono occupati da donne -il governo più “rosa” dalla fine della dittatura militare – e nella compagine governativa hanno trovato posto anche esponenti delle bistrattate – soprattutto durante la presidenza Bolsonaro- comunità indigene. Appare chiaro, quindi, che Lula, nel tentativo di allargare la sua maggioranza parlamentare, si è lanciato nella composizione di un governo fondato su un delicato equilibrio tra forze politiche e sociali in molti casi assai distanti tra loro. Il PT ha il controllo di 10 dicasteri, 11 sono stati assegnati a figure considerate indipendenti (ma che in realtà, per la maggior parte, fanno capo comunque a dei gruppi politici), 9 ministeri sono in mano a politici provenienti da partiti di centro o, addirittura, tendenti a destra. I rimanenti posti sono stati attribuiti perlopiù a esponenti di partiti di sinistra (tra cui 2 riservati ai comunisti del PcdoB). Dopo aver blindato già a metà dicembre – affidandone la direzione a suoi fedelissimi compagni di partito – alcuni ministeri chiave per l’attività politico-istituzionale del suo governo (la “Casa Civile”, una sorta di superministro (Rui Costa) incaricato di coordinare l’azione dei singoli ministeri; gli esteri (Vieira); le finanze con Haddad), Lula ha poi a più riprese completato la sua “squadra” di governo, cercando di “soddisfare” – anche attraverso lo “spacchettamento” di alcuni ministeri – le tante richieste pervenutegli ma creando così le premesse per prossime occasioni di duri scontri all’interno della nuova compagine ministeriale. Scontata la vicepresidenza (nonché il ministero dell’Industria e del Commercio) al già ricordato Geraldo Alckim (PSdB), spiccano nel suo governo alcune personalità in contrasto tra loro e con lo stesso Lula. Suddivisa l’area economico-finanziaria in ben quattro ministeri (tra cui quelle con a capo Alckim e Haddad), alla pianificazione economica è stata chiamata Simone Tebet (del MDB), giunta terza al primo turno delle ultime elezioni presidenziali e molto vicina all’agrobusiness, mentre alla gestione ed innovazione dei servizi pubblici è andata Esther Dweck, ben vista nei forum della finanza internazionale. D’altronde, per non scontentare gli ambientalisti è stata nominata Ministro dell’Ambiente Marina Silva (della Rete di Sostenibilità Ambientale), esponente dapprima del PT e, dopo la sua fuoriuscita, feroce critica della politica ambientale di Lula. Due incarichi quasi sovrapponibili paiono essere quelli affidati rispettivamente ad Aniene Franco (sorella della Marielle, uccisa nel 2018) in qualità di Ministro per l’Uguaglianza Razziale e all’attivista indigena Sonia Guajajara – ostile al varo di politiche industrialiste in Amazzonia – come Ministro per i Popoli Originari. Come, del resto, va sottolineato lo sdoppiamento dell’importante settore agricolo, con il Ministero dell’Agricoltura finito in dote a Carlos Favaro del PSdB e rappresentante di Aprosoja, (la forte associazione degli imprenditori e degli esportatori di soia) ed il Ministero dell’Agricoltura Familiare controllato dal PT tramite un suo esponente vicino al movimento MST. Ed altri ministeri ed incarichi potrebbero essere ancora ricordati come manifestazione della volontà di Lula di ricompensare coloro che lo hanno appoggiato nella battaglia finale contro Bolsonaro e di inglobare nella sua maggioranza parlamentare un arco di forze talmente variegato da dare la stura a comprensibili dubbi sulla effettiva tenuta di questo governo.
-) I primi passi del nuovo governo in patria…
Ed in effetti i primi provvedimenti adottati dall’esecutivo Lula all’indomani del 1° gennaio hanno già suscitato non pochi malumori all’interno della composita maggioranza governativa. L’immediato stanziamento, votato dal Parlamento al di fuori del “teto de gastos” (norma che limita la spesa pubblica), di ingenti fondi finalizzati al rilancio del Welfare – in particolare la Bolsa Familia – ha causato preoccupazione in merito alla copertura finanziaria del provvedimento, che si vorrebbe assicurare, da parte del Ministero delle Finanze, con una prossima riforma fiscale più “incisiva” verso i patrimoni dei ceti più ricchi della società brasiliana. Questa ipotesi finirebbe, però, per scontentare quei partiti moderati della coalizione – e, all’interno del governo, ministri come la Dweck ad esempio – che chiedono, al contrario, una minore pressione fiscale nei confronti del ceto imprenditoriale quale condizione per rilanciare gli investimenti e l’occupazione. La disputa, appena agli inizi, ha da subito provocato dei contraccolpi in Borsa e l’indebolimento del real, la moneta brasiliana. Inoltre, altro motivo di forte discussione, il sostegno sociale alle famiglie risulterebbe subordinato all’adesione delle stesse ad una campagna vaccinale obbligatoria – con plauso da parte dell’OMS – ed alla paventata carcerazione per quei genitori con figli minori che non dovessero adempiere a tale obbligo. (Di quest’ultima “minaccia” si stanno facendo propugnatori in particolare i parlamentari del PsdB). Varate poi disposizioni più restrittive sulla concessione del porto d’armi e sul loro possesso ed utilizzo (ampiamente favoriti invece dalle leggi volute dall’ex militare Bolsonaro), il nuovo governo ha bloccato il processo di privatizzazione di interi comparti di Petrobras, la potente compagnia petrolifera brasiliana, e di servizi pubblici come le Poste o l’Azienda Pubblica delle Comunicazioni (EBC). Queste decisioni non hanno avuto di certo il gradimento di investitori interni ed internazionali desiderosi di accaparrarsi fette consistenti dell’esteso mercato brasiliano. Ma il governo Lula aveva, perlomeno in questa fase, la necessità di rassicurare e di tutelare i lavoratori di questi importanti settori pubblici, anche in considerazione del fatto che il Ministero del Lavoro è controllato proprio dal PT. Altri fondi dovrebbero essere poi stanziati dal governo a favore di istruzione e cultura ma una partita determinante che il governo Lula si troverà a breve a dover giocare è quella della riforma delle pensioni, su cui si concentrano pressioni esterne da parte di organismi sovranazionali (FMI) “attenti” ai conti del bilancio statale brasiliano. Tra i primi atti anche l’istituzione -mal digerita dalle componenti più conservatrici della maggioranza- della segreteria per i diritti delle persone LGBT, fortemente voluta dal Ministro per i diritti umani, l’afrodiscendente Silvio Almeida.
-) … e fuori dai confini nazionali
L’equilibrismo di cui Lula ha fatto sfoggio negli affari interni del Brasile ha il suo corrispettivo nelle posizioni assunte dal neo presidente fuori dai confini nazionali. Dopo essersi abilmente districato – da politico di lungo corso qual è il “presidente operaio” – tra le diverse e spesso ostili tra loro (Usa-Russia, Usa-Venezuela, Ucraina-Russia) delegazioni estere presenti alla cerimonia d’insediamento, Lula ha immediatamente lanciato il suo Brasile, sulla base di una visione multipolare delle relazioni tra gli Stati, alla conquista di un ruolo da protagonista nel convulso scenario internazionale. Innanzitutto, a margine della riunione a Buenos Aires degli stati centro-sud americani aderenti alla Celac, l’Argentina del Presidente Alberto Fernandez ed il Brasile di Lula hanno avviato solide trattative per addivenire all’adozione di una moneta unica (il “SUR”) per i due paesi, con l’obbiettivo di contrastare il predominio del dollaro USA nelle transazioni commerciali tra gli stati del continente americano. Quindi una delegazione brasiliana è volata in vari stati africani per stringere nuovi accordi commerciali relativi all’import-export di materie prime e di altre risorse. Il Ministro degli Esteri brasiliano, in una sorta di equidistanza tra le grandi potenze mondiali, ha confermato la disponibilità del suo Paese ad un dialogo da pari a pari con gli Usa e la UE ma ha riaffermato al contempo l’importanza delle buone relazioni che intercorrono tra il Brasile e la Cina. Ma, soprattutto, Vieira ha opposto un netto rifiuto alla richiesta avanzata al nuovo governo da alcuni Stati europei di inviare armi all’Ucraina. Salvo poi il rappresentante brasiliano votare in sede ONU a favore della nuova mozione di condanna della Russia, approvata a larga maggioranza ad un anno dall’inizio della guerra. Lo Stato sudamericano pare volersi attestare sostanzialmente sul piano diplomatico, in relazione alla spinosa questione della guerra russo-ucraina, su una posizione di “neutralità attiva”, che gli garantisca spazi sufficienti per muoversi più agilmente nel richiedere una soluzione negoziale del conflitto.
-) I comunisti brasiliani dopo la costituzione del governo Lula
Molti analisti sia brasiliani che internazionali sono convinti che questo nuovo governo Lula non sopravviverà a lungo, schiacciato dalle molteplici contraddizioni interne e dalle forti pressioni che si riverseranno su di esso dal complesso quadro internazionale. Lula si troverà, a loro giudizio, a dover fare scelte che lo porteranno a scoprire uno di quei due fianchi che, al momento, è riuscito a porre sotto controllo. Se si sposterà troppo a sinistra, ciò potrebbe rappresentare un’occasione di rilancio per la destra, anche estrema, soprattutto se emergerà nelle sue file un leader più credibile di Jair Bolsonaro. Se volgerà verso posizioni troppo moderate, si potrebbero aprire spazi per l’azione delle forze politiche che si collocano alla sua sinistra. Ma, a dirla tutta, quale sinistra e soprattutto quali gruppi comunisti potrebbero veramente approfittare di un eventuale scenario politico di questo tipo? Considerando che il PCdoB ed il PsoL sono parte della maggioranza parlamentare ed esprimono anche alcuni ministri (rappresentanti dei rispettivi partiti o figure d’area che siano) nel nuovo governo; che il PCB, pur ponendosi risolutamente all’opposizione, appare molto isolato nel Paese (per non parlare di altri minuscoli gruppetti di varia tendenza: trotzkisti, maosti, guevaristi ecc.), solo un sommovimento dal basso, di realtà sindacali o sociali più coscienti potrebbe portare a soluzioni più avanzate. Certo è che il controllo esercitato dal PT e dalla CUT sulle masse popolari e proletarie brasiliane è molto forte. Lo si è riscontrato in occasione della recente e violenta reazione fascista alla vittoria di Lula, quando la proposta avanzata da alcuni settori della sinistra di creare nel Paese squadre popolari di autodifesa – sull’esempio dei “Colectivos” venezuelani – è stata prontamente rigettata. La stessa tutt’altro che massiccia mobilitazione popolare in difesa di Lula dai tentativi della destra di rovesciarlo nei primi giorni dell’anno è almeno in parte il risultato dell’azione frenante del PT volta ad imbrigliare i settori più combattivi del proletariato, evitando così una decisiva resa dei conti tra gli opposti schieramenti nelle strade e nelle piazze. Come, d’altra parte, questa “tiepidezza” popolare potrebbe anche significare – e ciò costituirebbe un non trascurabile campanello d’allarme per il “presidente operaio” – una sorta di delusione delle masse brasiliane verso le scelte compiute da Lula nella formazione del governo che lo affiancherà nella guida del Brasile. D’altronde non raramente – e ciò non solo in Brasile – le masse popolari ed il proletariato si possono rivelare più lungimiranti, rispetto a ciò che li attende, degli stessi gruppi dirigenti dei partiti che li dovrebbero difendere dallo sfruttamento e dall’oppressione padronale.
La componente femminile è fondamentale in questa lotta
In Sudan – dove la maggior parte della popolazione vive in condizioni di povertà, con forti diseguaglianze sociali – si sta consumando l’ennesima guerra di potere osservata, ovviamente con interesse, dalle potenze regionali, da Cina, Russia e Stati Uniti mentre l’ONU e Unione Europea sono totalmente assenti. La Repubblica del Sudan è uno Stato arabo-africano che confina con l’Egitto, il mar Rosso, l’Eritrea, l’Etiopia, con il Sudan del Sud (falso Stato senza un governo legittimo, ma che possiede il 75% dei giacimenti)), la Repubblica Centrafricana, il Ciad e con la Libia, ed è particolarmente ricco di risorse naturali, da pascolo ed idriche (circa 300 milioni di ettari di terreno irrigato naturalmente, o dalle acque del Nilo). Attualmente in Sudan – paese di una permanente instabilità da 40 anni di guerra civile – è in atto un violento scontro militare tra l’esercito regolare e i paramilitari delle Rapid support forces (RSF), ed è anche il risultato della deviazione delle forze militari e civili che hanno assunto la guida e il governo del Paese nell’aprile 2019. Una lotta per il potere e la ricchezza del Paese, incoraggiata da alcune potenze straniere tra cui le potenze imperialiste e i regimi reazionari arabi, e portata avanti da gruppi armati asserviti a queste potenze straniere schiacciando le aspirazioni del popolo sudanese alla libertà, alla pace, alla giustizia sociale e ad un cambiamento sostanziale. Gli Stati Uniti sono di nuovo presenti dopo che nel 1991 inserirono il Paese tra i sostenitori del terrorismo a causa dell’ospitalità data da Kartoum a Osama bin Landen quando lasciò l’Arabia Saudita ora, per la sua centralità per il terrorismo e le migrazioni, fa comodo agli Usa e anche ai Paesi del Golfo. Il Partito Comunista Sudanese, insieme con varie forze democratiche, si batte per l’immediato cessate il fuoco, per il ritiro degli eserciti e delle milizie dalle città e dalle campagne, per l’urgente assistenza umanitaria alla popolazione civile sotto la supervisione delle Nazioni Unite e per il ripristino della pace, della sicurezza e della stabilità. E invita i popoli, le forze democratiche e comuniste nel mondo a solidarizzare con la lotta del popolo sudanese e a respingere le forze ostili alla “gloriosa Rivoluzione di dicembre”. Che, cominciata il 19 dicembre 2018 da Kartoum, si è sviluppata in tutto il Paese fino all’aprile 2019 quando Omar al Bashir se n’è andato. Il malcontento per i tagli ai sussidi del pane – il cui prezzo è passato da mezza sterlina a tre sterline -, l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, del trasporto pubblico, le scelte dell’amministrazione di spendere il 75% del bilancio per la difesa e l’aumento della disoccupazione al 20% hanno acceso le proteste soprattutto nella città di Atbara dove la maggior parte degli abitanti, che lavorano per la Railway corporation, sono molto impegnati nel movimento sindacale Tailway Workers Union tra i fautori della caduta del regime militare nel 1964-1965. In questa lotta è fondamentale la componente femminile organizzata nel Civil women group che richiama le donne in piazza con lo Zagrouda (il canto delle donne) per il rifiuto della legge islamica in vigore dal 1983 e inasprita da al-Bashir.
La Conferenza Internazionale di Partiti e Organizzazioni Marxisti-Leninisti (CIPOML), saluta i lavoratori di tutto il mondo in occasione del 1° Maggio, data emblematica che simboleggia la lotta condotta dal proletariato internazionale contro lo sfruttamento capitalista, per conquistare la sua emancipazione sociale, per la rivoluzione e il socialismo. Questa commemorazione si svolge nel contesto di un mondo convulso, in cui si prevede l’arrivo di una nuova crisi economica del capitalismo. Come è successo nelle crisi precedenti, porterà milioni di lavoratori alla disoccupazione, causerà diminuzione dei salari, aumento della povertà, migrazione e altri problemi per le classi lavoratrici; ma sarà anche l’occasione per gli stati dei paesi imperialisti e capitalisti più sviluppati di attuare programmi di salvataggio dei grandi monopoli industriali e finanziari che “presentano difficoltà economiche”, come già stanno facendo riguardo la crisi bancaria che, poche settimane fa, ha affondato diverse banche negli Stati Uniti, in Germania e in Svizzera. La verità è che i lavoratori e i popoli sono vittime di sfruttamento, oppressione e discriminazione. Perciò combattono le politiche antipopolari applicate dai governi dei rispettivi paesi, volte a favorire gli interessi della grande borghesia e del capitale monopolistico internazionale. In questo momento, il mondo sta assistendo all’ascesa della lotta delle masse per le loro rivendicazioni e diritti, in cui i lavoratori e i giovani giocano un ruolo di primo piano. L’Europa è diventata l’epicentro di questo scontro di classe. All’interno dei paesi imperialisti e capitalisti più sviluppati la classe operaia alza la voce con forza, difende la sicurezza sociale e i suoi diritti, rivendica cambiamenti urgenti. La lotta degli operai, dei giovani e delle donne dei settori popolari è presente in tutti i continenti. L’ascesa della lotta dei lavoratori dei popoli a livello internazionale dimostra che la contraddizione tra la classe operaia e la borghesia, tra lavoro e capitale, sta guadagnando intensità. Viviamo in un mondo condizionato dai diversi momenti del conflitto tra le potenze imperialiste, i loro blocchi e i patti economici e militari. La guerra interimperialista che si svolge in Ucraina ne è un’espressione, ma non è l’unica manifestazione. Conflitti armati locali sono in corso in altri paesi, le guerre commerciali, gli apparati militari e gli eserciti si stanno rafforzando, ci sono dispute per il controllo economico e politico dell’intero pianeta. Le lotte fra gli imperialisti, in particolare quella tra Stati Uniti e Cina, ci avvertono del pericolo di una conflagrazione mondiale. I popoli non possono schierarsi con l’una o l’altra potenza imperialista, con l’una o l’altra alleanza economica e politica degli Stati capitalisti perché rappresentano tutte gli interessi dei grandi monopoli internazionali, del capitale finanziario imperialista. Pertanto ribadiamo la nostra condanna della guerra interimperialista che si sta svolgendo in Ucraina, alziamo le bandiere della pace, che significa lottare in difesa della vita dei lavoratori e dei popoli e mantenere una giusta posizione antimperialista. La CIPOML esprime la propria solidarietà ai lavoratori e ai popoli vittime dell’aggressione di potenze straniere; in particolare esprimiamo la nostra voce di incoraggiamento al popolo palestinese che da decenni si batte per il diritto di vivere in pace nella terra che gli appartiene e di costituirsi in stato autonomo e sovrano; allo stesso tempo, condanniamo la politica criminale del regime di Benjamin Netanyahu, capo dello Stato sionista di Israele. Ciò che accade oggi nel mondo, come risultato dell’aggravamento di problemi e fenomeni tipici del sistema capitalista, conferma ancora una volta che questo sistema non ha nulla di buono da offrire ai lavoratori, ai giovani e ai popoli. È un regime di sfruttamento dei lavoratori e di opulenza per la borghesia; è un sistema che vive di guerra contro i popoli, per proteggere il paradiso in cui si riproduce il grande capitale. I lavoratori non possono continuare ad essere sottoposti al dominio e allo sfruttamento del capitale. La lotta per le rivendicazioni immediate e i diritti politici dei lavoratori e dei popoli sono irrinunciabili, sono fondamentali per la loro stessa esistenza, ma non sono sufficienti per raggiungere l’emancipazione sociale. La CIPOML chiama i lavoratori del mondo ad unirsi alle lotte per il salario, per il lavoro stabile, per la sicurezza sociale, per la terra, per l’acqua e per i tanti altri problemi che ci affliggono, a lottare con lo scopo di abbattere questo sistema di sfruttamento, per porre fine al dominio del capitale, per la conquista del potere, per il trionfo della rivoluzione sociale e del socialismo.
Solo la rivoluzione proletaria porrà fine allo sfruttamento capitalista! Solo il potere degli operai emanciperà tutta l’umanità!
Comitato di Coordinamento dellaConferenza Internazionale di Partiti e Organizzazioni Marxisti–Leninisti (CIPOML)
Il coordinamento inter-sindacale ha lanciato una nuova giornata di mobilitazione il 6 aprile
Partito Comunista degli Operai di Francia
La decima giornata di scioperi e manifestazioni ha mostrato chiaramente che non era questo il momento per dichiarare la fine della mobilitazione. I settori in sciopero c’erano: energia, SNCF [ferrovie francesi – ndt], trattamento rifiuti, anche se è difficile allargare il movimento di sciopero o far aderire a scioperi ripetuti. C’erano giovani, studenti e liceali, con università e scuole bloccate. La repressione dei manifestanti che si opponevano ai bacini, erano in molti a Sainte Soline sabato, era denunciata su molti cartelli, in connessione con la denuncia della violenza della polizia, in particolare quella degli agenti di polizia BRAV-M [Brigate di Repressione delle Azioni Violente – Motorizzate, unità di polizia create nel 2019 per reprimere i Gilet Gialli; sono oggetto di inchieste giudiziarie per atti di particolare violenza sui manifestanti – ndt]. Cresce la richiesta di scioglimento di queste unità. Aumentano i controlli della polizia e il lancio di lacrimogeni, soprattutto nelle città, dove molti giovani partecipano a manifestazioni e azioni. L’ampiezza delle manifestazioni, ancora una volta particolarmente forti nelle città grandi, medie e anche piccole, ha dimostrato che la “pausa” non era all’ordine del giorno [la “pausa” consiste nella proposta di congelare per un mese e mezzo l’art. 7 della riforma delle pensioni, articolo che prevede l’innalzamento dell’età pensionabile a 64 anni, e di nominare dei mediatori al fine di raggiungere un compromesso sociale con il governo – ndt]. A fine mattinata, questa proposta, lanciata dal leader della CFDT, L. Berger, era già stata dibattuta nelle file dei manifestanti, e ancor di più, nelle manifestazioni e nelle discussioni del pomeriggio. Ha attraversato il congresso confederale della CGT, che si sta tenendo a Clermont Ferrand, dove l’intervento di P. Martinez a sostegno della proposta di Berger non è “passato” tra i delegati [la proposta di “pausa” è stata ripresa anche dal sindacato FO Force Ouvriere – ndt].
Il rigetto di questa riforma, soprattutto dei 64enni, rimane molto forte tra i lavoratori e anche più in generale, e viene respinto il rifiuto di Macron di tenerne conto. Quanto alla criminalizzazione della protesta sociale, a colpi di candelotti di ogni genere, manganelli a pioggia e arresti, essa è ampiamente denunciata, soprattutto dai giovani. I legami di solidarietà che si sono intessuti tra i partecipanti alle azioni di blocco e ai picchetti, si stanno rafforzando. È un fattore importante per questo movimento e per le lotte future. In diverse aziende, volantini recanti le sigle del sindacato CGT aziendale e quelli di altri sindacati CGT di altri settori, incitavano allo sciopero e alla manifestazione di questo 28 marzo. Vediamo anche nei giovani il desiderio di approfondire la comprensione delle implicazioni di questa riforma sui giovani stessi e sui loro “nonni e nonne”, per convincere chi li circonda ad aderire al movimento, allargando la protesta a tutta la società. Molti lavoratori si organizzano per poter partecipare alle azioni e soprattutto alle manifestazioni che scandiscono questo movimento, scioperando nelle giornate di mobilitazione. Ciò dimostra che stanno proiettando in un movimento di lungo periodo, senza rinunciare a rivendicare il ritiro della riforma. Il coordinamento inter-sindacale ha lanciato una nuova giornata di mobilitazione il 6 aprile. Come diciamo alla fine del volantino del partito distribuito in tutte le città dove siamo organizzati o abbiamo dei compagni: “no, non è finita”.
Il volta faccia delle monarchie del Golfo sembra sia definitivo. Al momento esse in pratica stanno abbandonando, parzialmente, l’imperialismo occidentale – Usa e Company – per gettarsi convintamente nelle braccia di Cina e Russia. Sono successi tanti fatti che hanno convinto queste monarchie, anche perché il cavaliere di prima è morente o come minimo ha forze fiacche. L’irritazione dell’Arabia Saudita inizia con Obama che spinge la monarchia a impegnare tutte le sue forze nel decennio di fuoco che ha invaso e distrutto diversi paesi e popolazioni arabe. Una volta che l’incendio è diventato indomabile l’amministrazione Usa ha cominciato a prendere le distanze dalla monarchia saudita e in particolare dall’erede al trono Mohammad Ben Salman. Trump, il successore di Obama, ha voluto soltanto impegnare queste monarchie ed altri paesi arabi in una specie di Nato mediorientale sotto il commando Usa-Israele, un’alleanza in funzione soprattutto anti iraniana e, come si capisce, al servizio esclusivo degli interessi israeliani. Per arrivare a questo occorre normalizzare i rapporti con l’entità sionista e a questo scopo si sono inventati la “pace di Abramo”. Due monarchie hanno subito intrapreso il percorso Emirati e Bahrein, mentre la A.S è rimasta un po’ riluttante. Per la creazione della Nato Mediorientale occorre armarsi ed ecco che l’industria bellica Usa incomincia a darsi da fare: contratti super miliardari vengono messi in essere e il salasso delle economie delle monarchie prende quota. L’amministrazione Biden rincara la dose contro Ben Salman figlio e lo strappo/ricatto viene a consumare qualsiasi tipo di rapporto con la monarchia. Tutto ciò avviene in un momento di decadenza politico/militare della super potenza yankee. Iraq, Afghanistan e Iran hanno denudato il gigante mostrando la sua impotenza. Il colpo mortale avviene in Ucraina con la Russia che da sola fa fronte alla Nato tutta insieme e sembra vincere il confronto. Ciò che molti hanno capito da questa guerra per procura che si consuma in Ucraina è che la Nato è una tigre di carta. Questo è stato capito anche dai retrogradi sauditi e, data la situazione, sono giunti alla conclusione che questa tigre non potrà più offrire quella protezione che le è stata garantita per decenni. Sul piano economico è lo stesso. L’imperialismo modello Usa non ha più futuro e la Cina si presta al sorpasso inevitabile in pochi anni. A dire il vero è tutta l’economia che si sposta ad est lasciando i vecchi imperialismi occidentali, yankee ed europei, a languire ed agonizzare. A convincere di più i sauditi a cambiare padrone è la loro guerra con lo Yemen diventata un pantano da cui non riescono ad uscire senza perdere la faccia. Ingenti quantità di denaro sono già stati spesi senza giungere a nessuna vittoria anche in parvenza. Tutto al contrario, la minaccia yemenita è diventata incombente e molto pericolosa con i loro missili e droni che potrebbero distruggere il paese invasore. L’assenza degli Usa nello scenario yemenita e il mancato appoggio ai sauditi che, oltre a rendere disastrosa la situazione umanitaria nello Yemen, rischia di ricevere un durissimo colpo (lo Yemen ha minacciato di chiudere Bab El Mandeb di fronte al commercio marittimo se il loro paese verrà tenuto sotto embargo e sotto assedio). Tutto ciò probabilmente ha convinto i sauditi a cambiare rotta. La crescita dell’Iran su tutti i piani: economico, politico, militare e scientifico è stata un ulteriore motivo, molto valido, che ha spinto i sauditi a firmare l’accordo di pace. Il luogo della firma è molto significativo dal punto di vista politico e rappresenta: – la crescita di ruolo della Cina politicamente e la sua mediazione viene a sostituire sia gli Usa e i paesi europei. A differenza del capitalismo vorace occidentale la Cina offre reciprocità e scambio paritario dove gli attori sono tutti vincenti. Il contrasto tra i due modelli capitalistici è abissale; ricordiamo che quello occidentale ha basato la sua influenza sulla forza militare brutale, sulla minaccia. E, come se non bastasse, creando situazioni di caos e di instabilità politica in tutti gli Stati riluttanti ad accettare il dominio assoluto degli Usa e dei paesi scagnozzi europei arrivando, spesso, alla liquidazione fisica dei capi di governo invisi ai centri di potere nei paesi dell’imperialismo occidentale. Quindi, il rapporto che si presenta è un rapporto di sottomissione totale con un impoverimento progressivo dei paesi sottomessi. Questo naturale risultato lo abbiamo visto chiaramente nei paesi africani e dell’America del Sud, non è il caso dei paesi del Golfo che hanno mantenuto una certa arretratezza e sottosviluppo malgrado il grande surplus finanziario e l’accumulo che sono riusciti a racimolare. Probabilmente, come sostengono in molti analisti yankee, gli arabi si sono anche stancati del trattamento loro riservato dagli Usa e si sono diretti ad est e a nord verso le economie promettenti nei mercati asiatici e russi. Un volta faccia che, se si compie, darebbe un colpo mortale al capitalismo occidentale in toto e una spinta, invece, decisiva alle economie promettenti asiatiche, una spinta che accelera il sorpasso della Cina come prima economia mondiale. Sembra che anche i cinesi se ne siano accorti e stanno accelerando a loro volta la costruzione di una potenza navale, la Cina sta costruendo porti un po’ ovunque per assicurarsi un approdo tranquillo. La flotta militare, invece, serve ad assicurare le rotte delle sue flotte commerciali. Tornando all’accordo. A distanza di poco tempo i risvolti e le reazioni nella regione prendono il volo: in israele guardano a questa intesa come una sconfitta strategica, una grande delusione. Il piano di portare i confini dell’entità sionista dal punto di vista della sicurezza il più lontano possibile dal centro è stato probabilmente rilegato e messo nel cassetto. La Nato mediorientale anche e l’attacco all’Iran, partendo dai paesi del Golfo, dimenticato. Insomma tutto ciò sul quale hanno lavorato assiduamente per decenni è probabilmente svanito con un tocco di pennello. Un colpo durissimo per la dirigenza politica e militare sionista. Dall’altra parte, nei paesi arabi, questa intesa è stata salutata positivamente e accolta con molto sollievo. I risvolti immediati si sono visti in alcune questioni conflittuali che hanno dato una accelerazione alla risoluzione dei conflitti, in primis nello Yemen e la Siria. Certe aperture si sono viste anche in Libano, Kuwait e Bahrein. Hanno riaperto le loro ambasciate a Teheran, la Turchia sta normalizzando i suoi rapporti con i paesi arabi e probabilmente giungerà ad accordarsi con la Siria per ritirare le sue truppe dalle zone occupate. Anche in Libia sembra che le cose vadano verso una prospettiva di pace tra le parti belligeranti. Insomma qualcosa si muove, ma bisogna essere molto cauti per vedere su quali spiagge si approda.
È partita già dalla fine dello scorso anno la mobilitazione di rifiuto della legge sull’aumento dell’età pensionabile a 64 anni che il Governo francese intende approvare a causa dell’invecchiamento della popolazione. Il disegno di legge sulla riforma delle pensioni, particolarmente ingiusta per le donne, era stato presentato dopo settimane di trattative tra governo e sindacati che prevede l’anticipazione dal 2035 al 2027 della cosiddetta legge “Touraine”, che aumenta di un anno il periodo per cui è necessario versare contributi per andare in pensione, e l’abolizione di alcuni regimi pensionistici speciali, oltre a una serie di altre misure. Macron aveva già provato a cambiare il sistema pensionistico nel 2019 e non è il primo presidente francese che vuol mettere le mani sui 42 regimi pensionistici basati su notevoli differenze nelle agevolazioni e nei trattamenti delle singole categorie, costato nel 2020 l’equivalente del 13,6% del Pil, in proporzione meno di quello italiano che è il 15,6. Come in Italia tutte le giustificazioni per far fronte alle pensioni si fanno ripagare sugli stessi lavoratori, in piena sintonia con le imposizioni della UE. Dopo il successo delle manifestazioni di febbraio, e della sesta giornata di sciopero che ha visto l’arresto di 11 manifestanti quando sono scesi in piazza solo a Parigi 700mila lavoratori e altre decine di migliaia in almeno 300 città, sabato 11 la piazza di Parigi ha raggiunto un milione al quale si aggiungono le centinaia di manifestazioni nelle altre città francesi. Sono giornate nere per i trasporti ferroviari, aereo e locale, uno dei settori più colpiti, per gli impianti energetici, le scuole, scioperi con il blocco delle spedizioni all’uscita di tutte le raffinerie. La lotta si è allargata contro l’erosione di tutte le conquiste sociali anche se – a causa della frantumazione dei comunisti e del “riformismo” della maggiore confederazione sindacale (comunque non paragonabile a quella italiana) che parla di redistribuzione del capitale – quella lotta di classe necessaria per abbattere il capitalismo e costruire il socialismo è ben lontana. Sono comunque proteste che esprimono il malcontento contro le scelte governative mettendo in ginocchio l’economia. Molto simile però all’esplosione del fenomeno passato alla storia come Maggio francese, anche se negli Stati Uniti si era già sviluppato negli anni ’60 un movimento contro la guerra e la segregazione razziale, quando si svilupparono una serie di scioperi studenteschi in numerose università ed istituti di Parigi contro il progetto di riforma scolastica Fouchet, fortemente classista. Mobilitazioni e scioperi che si unirono alle lotte operaie, seguite da violenti scontri con le forze dell’ordine, lotte osteggiate dal sindacato e che sfociarono nell’occupazione della Renault di Sochaux dove, durante lo sgombero morirono due operai, e che in seguito si propagarono praticamente in tutto il mondo. Per il momento la riforma è passata al Senato il 9 marzo con 201 voti a favore e 115 contrari, ma la lotta non si ferma.
In una lettera alla CGT e all’Union Syndicale Solidaires pubblicata lunedì 6 marzo, diversi sindacati palestinesi hanno inviato un messaggio di solidarietà alla mobilitazione dei lavoratori e dei giovani contro la riforma delle pensioni del governo Macron alla vigilia della giornata di sciopero generale del 7 marzo. Questa posizione esemplare testimonia ancora una volta che la solidarietà è aiuto reciproco nella lotta comune. La riproduciamo di seguito integralmente.
Cari compagni della CGT, della Confederazione Generale del Lavoro e dell’Union Syndicale Solidaires dalla Palestina, saluti di uguaglianza e giustizia sociale
Noi, sindacati e funzionari sottoscritti, a nome dei sindacati palestinesi e di tutti i lavoratori e il popolo palestinese, esprimiamo il nostro pieno e illimitato sostegno e sostegno alle vostre proteste di massa per respingere le cosiddette “pensioni di riforma” del governo di Emmanuel Macron. Vediamo l’adozione di questa legge come un nuovo attacco del governo francese e del grande capitale economico contro la classe operaia francese e gli oppressi. Queste sono le stesse aziende e governi che sostengono l’occupazione sionista della Palestina. Ad esempio, il gruppo francese “Carrefour” ha recentemente aperto negozi negli insediamenti “israeliani” nella Cisgiordania occupata. I sindacati palestinesi affermano il loro totale appoggio allo sciopero generale e alla settima marcia a cui tutti i sindacati francesi stanno convocando, rifiutando questa legge e le pratiche del governo francese. I sindacati palestinesi accolgono con favore il continuo sostegno della CGT francese e dei vari comitati di solidarietà per le questioni dei lavoratori e del popolo palestinese, il loro sostegno alla causa palestinese e il loro rifiuto dell’occupazione israeliana e delle sue pratiche, e affermano il loro costante desiderio di approfondire i rapporti di cooperazione e di beneficiare dell’esperienza sindacale francese. Insieme fino al raggiungimento degli obiettivi dei lavoratori Per raggiungere la libertà dalla coercizione delle politiche imperialiste e del colonialismo sionista Fronte sindacale progressista – Palestina Sindacato pubblico dei lavoratori della petrolchimica e del gas Unione pubblica dei lavoratori dell’agricoltura e della produzione alimentare Unione pubblica dei lavoratori della pesca e della produzione marittima Unione dei lavoratori dei servizi pubblici
Mentre il presidente del Senato Ignazio La Russa è in visita ufficiale nell’entità sionista il suo primo ministro Benjamin Netanyahu, dalle mani grondanti di sangue palestinese, sarà in Italia il 9 marzo. Tanti i dossier sul tavolo: dall’energia, con il progetto del gasdotto Eastmed su cui Edison ha chiesto al governo un sostegno esplicito, alla guerra in Ucraina, dalla “lotta all’antisemitismo” nei giorni scorsi l’ambasciatore israeliano Alon Bar ha incontrato il prefetto Giuseppe Pecoraro, nominato coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo dal presidente Meloni, dalla “cooperazione industriale, tecnologica e scientifica” a quella militare. A tal proposito, a dicembre, in occasione di un incontro tra Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e ministro delle Imprese e del Made in Italy e l’ambasciatore israeliano Bar, era stato attivato il gruppo di lavoro per “migliorare la cooperazione industriale”. La borghesia sionista italiana compie il suo rituale di riconoscimento e sostegno all’entità sionista, la cui accelerazione verso la forma-Stato fascistoide, ma sempre spacciata per unica democrazia del medio-oriente, sta provocando anche una seria crisi “interna” con manifestazioni oceaniche contro il progetto di legge in corso di approvazione per subordinare la magistratura al governo. Vorremmo però che fossero le cifre a parlare: per quanto riguarda l’occupazione della Palestina solo da inizio anno, sono più di 70 i palestinesi uccisi dall’esercito sionista, centinaia quelli incarcerati, migliaia i feriti. Solo negli ultimi giorni, coloni israeliani hanno effettuato pogrom a sud di Nablus e nella città di Huwara, incendiando mezzi e case con all’interno civili indifesi; ministri israeliani (come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir) si sono espressi con incitamenti a crimini di guerra e a favore della “cancellazione” di Huwara “dandola alle fiamme”. Il parlamento israeliano ha reintrodotto la pena di morte, ma solo per i Palestinesi prigionieri, accusati e condannati per atti di resistenza che hanno comportato uccisioni. Questo il portato della visita del premier dell’entità sionista alla sua omologa italiana, entrambi in continuità con i precedenti governi, ma decisi a trarre ulteriore profitto dalle vicende della guerra in Ucraina e a consolidare la penetrazione del sionismo in Italia con il suo bagaglio di sistemi avanzati di controllo e repressione delle masse, sperimentati sulla pelle dei palestinesi. A fronte di tutto ciò, continua indefessa la resistenza del popolo palestinese, nel totale e assordante silenzio internazionale, la borghesia incassa la mancanza di sostegno da parte delle classi subalterne e la loro incapacità di inquadrare la lotta al progetto sionista come lotta all’imperialismo. Tocca a noi invertire la rotta, ripristinare metodi e forme efficaci di solidarietà internazionalista, pur nel complicato contesto attuale, a partire dalla lotta contro la NATO, contro il nostro imperialismo e il suo governo guerrafondaio e antioperaio.