Il governo Draghi procede con gli sfratti

I due provvedimenti decisi dal governo Draghi, ossia lo sblocco dei licenziamenti, che sta già producendo i suoi effetti nefasti con la chiusura di interi stabilimenti (Gianetti Ruote, Gkn, Tikmet) e la ripresa delle esecuzioni degli sfratti a partire dal 30 giugno, sono il preludio di una nuova emergenza abitativa.

Per capire quanto il problema della casa sia connesso al lavoro, basta guardare agli anni scorsi con l’esempio del tracollo economico del 2007, quando si verificò progressivamente un’esplosione di sentenze di sfratto, che passarono dalla media delle 40.000 annuali, al picco dell’anno 2014 con ben 77.526 provvedimenti di rilascio dell’immobile (dati Ministero Interno). Di questi, la grandissima maggioranza erano casi di morosità incolpevole, ovvero legati dall’incapacità di pagare l’affitto per perdita o riduzione del reddito, e solo una minima parte per scadenza del contratto di locazione. A livello sociale si registrarono 4,7 milioni di individui in “povertà assoluta”, ovvero privi “delle risorse necessarie a vivere in uno spazio dignitoso”, ai quali si aggiunsero altri 8,5 milioni di individui in “povertà relativa”, cioè incapaci a trovare sul mercato una risposta al problema casa c.d. (dati Cassa Depositi e Prestiti 2016). La stagione pandemica di ristrutturazione capitalistica, già iniziata con una serie di licenziamenti collettivi, non potrà che generare una nuova ondata di sfratti e pignoramenti.


A rendere ancora più grave il quadro è l’assenza cronica di case popolari; infatti secondo i sindacati degli inquilini e le associazioni di categoria come Federcasa sono attualmente più di 759.000 gli alloggi di edilizia pubblica in tutta Italia, ma si stima un fabbisogno di altri 300.000 per fare fronte alle necessità della popolazione.

Tale penuria di servizi abitativi non è casuale. Alla base vi è la gestione affaristica da parte delle aziende di edilizia pubblica, che svendono il patrimonio immobiliare, per coprire gli enormi buchi di bilancio accumulati con lottizzazioni speculative, invece di procedere alla ristrutturazione degli alloggi sfitti. Le case popolari vuote, infatti, sono raddoppiate nel decennio 2004/2014 dal 3,6 al 6% sul totale del patrimonio nazionale (cassa Depositi e Prestiti).

Sono emblematici: il caso lombardo di Aler Milano schiacciata da 450 milioni di euro di debiti, come è stato messo nero su bianco dalla Commissione Regionale di Inchiesta, mentre solo a Milano sono 10.000 gli appartamenti sfitti o inagibili, nonostante le migliaia e migliaia di famiglie in attesa di assegnazione; il caso dell’Ater di Roma, dove la manutenzione non viene più effettuata e solo nell’ultimo piano di vendita è prevista l’ulteriore alienazione di 7428 case popolari.

Oltre l’affarismo delle dirigenze ci sono deliberate scelte politiche del tutto coerenti con il paradigma capitalistico del profitto. Lo Stato, lungi da essere un ente neutrale, non ha alcun interesse a incrementare gli alloggi per gli strati popolari. Ciò è messo nero su bianco dai piani comunali e regionali, che da un lato fotografano un peggioramento delle condizioni di vita tra precarietà e bassi salari a partire dal decennio 2010/2020, dall’altro non procedono a incrementare l’offerta edilizia, nonostante questa sia ritenuta del tutto insufficiente.

Le istituzioni elaborano strategie basate su sostegni economici alle famiglie e sul ricorso all’housing sociale, ovvero al terzo settore, che non può elaborare una programmazione generale e offre dei prezzi poco inferiori a quelli di mercato.

Simili indirizzi politici sono del tutto coerenti con la società capitalistica, dove la casa non è un diritto, nonostante sia un bene necessario per vivere, ma è ridotta a merce, alla quale si può accedere solo se si dispone di un’adeguata quantità di ricchezza, mentre assicura rendite elevate ai proprietari privati.

Chi non lavora o non lo fa abbastanza, ovvero chi non contribuisce sufficientemente alla valorizzazione del capitale, non ha alcuna importanza politica e viene ridotto a mero problema di ordine pubblico da risolvere con la forza degli sgomberi.

La questione delle abitazioni si aggiunge dunque alla disoccupazione, al precariato, alla povertà, nell’aggravare l’assoluta mancanza di sicurezza nella quale vivono le masse popolari sotto il dominio della borghesia.


Di fronte a questa situazione si è assistito al sorgere positivo delle resistenze agli sfratti e alle occupazioni da parte delle famiglie e degli occupanti, lotte necessarie, ma del tutto insufficienti se rimangono scollegate e prive di progettualità politica rivoluzionaria .

Le esperienze dei movimenti per il diritto alla casa, seppure meritevoli per la loro capacità di organizzare settori di proletariato nativo e immigrato, arginando la povertà abitativa attraverso il conflitto, rimangono frammentate, legate a una dimensione microvertenziale e prive di collegamento con le lotte della classe lavoratrice.

In quanto comunisti incoraggiamo e sosteniamo le resistenze che si mettono in campo, attraverso la formazione e l’unità di organismi di lotta proletari e popolari, fondamentali per procedere all’avanzare della lotta di classe e alla costruzione di un nuovo sistema sociale. Non si riuscirà a porre fine al problema della casa,fino a quando il proletariato non avrà conquistato il potere politico, attuando misure immediate come sono oggi lo sblocco dei licenziamenti e degli sfratti da parte del governo borghese, per arrivare alla pianificazione dell’edilizia pubblica misurata sui bisogni della classe. Per fare questo è necessario dotarsi di un Partito comunista capace di dirigere la trasformazione rivoluzionaria della società.

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